Sporcizia, degrado e vandali nel vuoto rovente del Plebiscito
Napoli nuda, spogliata dalla monnezza, mostra tutte le ferite, le ammaccature, i lividi di una città eternamente ferita a morte. A cominciare da piazza del Plebiscito, l'icona della rinascita, riprodotta in milioni di foto che quotidianamente fanno il giro del mondo. In questo agosto torrido, sotto un cielo spietatamente pervinca, quel mare di cubetti di porfido e il colonnato di San Francesco di Paola disegnano un catino rovente, con rare ombre, desolatamente vuoto. Il colpo d'occhio è notevole, dopo il budello di via Toledo e l'anticamera di piazza Trieste e Trento. Ma è anche traditore, perché ignora la fetenzia, la zella che marchiala piana in ogni angolo. I napoletani la conoscono bene questa sporcizia incoercibile, radicata e annidata dovunque, nelle forme più mobili. E i forestieri, a mano a mano che si avvicinano alla basilica monumentale, la scoprono con smorfie di disgusto. Dovunque chiazze maleodoranti e stagnanti di orina, anche a un metro dalle sedie dell'unico bar che sfida l'iperuraneo del colonnato. Ma cene sono soprattutto nell'ala sinistra, verso via Paggeria, dove da anni c'è un pezzo della balaustra di marmo rotto, che fa molto rudere, ma non siamo a Pompei. E proprio qui, nascosto alle fotocamere straniere ci sono cassonetti sempre colmi di rifiuti ingombranti, già alle tre del pomeri; o, appoggiate al muro esterno della chiesa, ci sono persino alcune barre di famigePer non vedere. Ma il fresco della basilica borbonica tenta. Ne approfittano solo gruppetti di instancabili giapponesi che hanno il coraggio, da veri kamikaze, di farsi tutta la piana, scansando tracce di letame equino. Perché deviare per il colonnato non è consigliato. Per il naso e per l'occhio. Le scritte, che imbrattano tutto, sono un campionario della stupidità dei vandali, delle passioni sportive e degli amori che durano meno delpennarello usato per sporcare il marmo. «Birra, sesso e Napoli», «Sbirri infami», «W la Lazio», «Inter merda», «Anna vita mia», «Enzo Bucatino t.v.b.» (c'è mancato poco che non si trattasse di un maccarone). Di tutto il resto, sgrammaticature comprese, èbenetacere. Insulti all'arte sotto forma di insulse frasi d'amore. Non si salvano neanche le basi delle statue equestri nel mezzo della piaga che, appena si allungano le luci della sera, diventano il bersaglio di pallonate. Per ora segnano il limite dietro il quale circolano impunemente gli scooter, con passeggeri munti di casco. Almeno quello. Un vuoto zen, dove non stupisce vedere solo volti orientali, sotto ombrellini cinesi venduti da un ambulante africano che trova riparo all'ombra esile di un lampione. C'è poco da stare freschi. C'è anche poco da starci, comunque. Tutto chiuso nell'ora della apoplessia meridiana. Alle 15 sono andati via gli impiegati dell'ufficio informazioni. La libreria Treves, l'unica attività (insieme al bar) della piazza è chiusa fino al 6 settembre. E qualcuno ne ha approfittato per spaccare quasi tutti i vetri. Eppure servirebbe davvero poco per rendere viva questa luogo simbolico e unico. Manutenzione, sorveglianza e cura. Quello che avviene in Europa e nei quartieri occidentali delle città coloniali. Ma, come diceva Scarfoglio, Napoli è l'unica città coloniale senza il quartiere europeo. Basta spostarsi lungo via Toledo, con i marciapiedi occupati da merce pezzotta, per accorgersene. Qui, anche ad agosto, continua la tarantella, stile guardie e ladri, con i vigili a far smammare gli ambulanti che due minuti dopo la partenza della polizia municipale sono di nuovo al loro posto, rassegnanti più che scocciati, persino divertiti per essere finiti nei filmati delle videocamere dei turisti. O si può scivolare verso via Chiaia, dove le fioriere, bruttisime, sono diventate cestini supplementari per bicchieri, bottiglie e mozziconi. I cani (e forse non solo loro) le usano come pisciatoio, con la complicità dei padroni. E il percolato si addensa in macchie di schifoso neropece. Eccola la Napoli ad occhio nudo, che scandalizzava i viaggiatori postunitari, per la quale non si può invocare nessuno sventramento. Semmai una decapitazione, perché la zella, quella comune e diffusa abitudine alla sporcizia, dalla pancia della città ha da tempo raggiunto la faccia. Un volto senza più la maschera della monnezza.