Crolli e devastazione nell’antica cappella resta solo un teschio
Nascosta in una stradetta che collega via Tribunali a Forcella, la chiesa di San Nicola ai Caserti se ne sta diroccata e blindata da un portoncino chiuso con un lucchetto. Oggi la strada è malmessa e abbandonata. Un tempo in questo luogo c’era il cuore di Napoli. Proprio dove oggi c’è quel che resta della chiesa, era il ginnasio dove i giovani della città greca andavano a costruire il fisico; pochi metri più giù c’era il portico dei filosofi che trascorrevano le giornate a discutere e ad insegnare. Nella parte alta della strada erano tutti stabilimenti termali: si chiamava regione «termense». In un sottoscala che si trova in cima a via San Nicola dei Caserti proprio noi del Mattino, con gli speleologi della «Macchina del Tempo», scoprimmo nuovi e sconosciuti resti di quelle terme. E lungo questa strada, proprio davanti al luogo dove oggi sorge la chiesa, c’era il percorso delle corse «lampadiche»: le gare in onore della sirena Parthenope. I giovani più atletici si cimentavano in una lunga ed estenuante corsa portando una lampada accesa, vinceva il primo che riusciva a portare il fuoco sacro sul sepolcro della mitologica progenitrice della città. Basterebbe valorizzare un solo brandello di queste antiche e affascinanti storie per trasformare la strada e la chiesa in attrattore turistico. Invece le storie restano sepolte nei libri antichi e nei racconti colti degli studiosi, e la chiesa marcisce nel degrado e nell’abbandono. Le chiavi del lucchetto vengono gelosamente custodite dall’associazione «Alekos», fondata da Ugo De Flaviis, capogruppo alla Regione di Udeur-Popolari per il Sud. L’associazione ha un progetto per rivitalizzare quel luogo: attende la concessione definitiva dal Comune, proprietario della struttura, per entrare ufficialmente lì dentro, ristrutturare e ripulire quel che resta della chiesa, e riaprirla al quartiere con attività per i ragazzi ma anche con mostre ed esibizioni artistiche. È l’architetto Mauro Improta che si occupa in prima persona del progetto. Bisogna avere la grinta e la follìa dell’associazione Alekos per entrare nella chiesa e riuscire a intravedere un futuro. Oggi dentro la cappella fondata ottocento anni fa non c’è praticamente nulla. I quadri sono stati portati via e oggi sono conservati nella chiesa di Sant’Antonio a Posillipo e dell’Incoronata. Gli altari sono stati strappati, le lesene sono spaccate: un po’ mangiate dall’umidità e un po’ crollate per l’incuria. Le cupole sono aggredite dalla muffa e del muschio. Anche la terrasanta è stata violata e utilizzata come deposito di materiale di risulta. In quei fossi sul pavimento s’è calato lo speleologo Luca Cuttitta, e ha trovato l’unica testimonianza antica che si conserva di quella chiesa: un teschio infilato in una piccola nicchia scavata nella roccia. Chissà come ha resistito al tempo e alle devastazioni. Quella chiesa, raccontano sottovoce le persone della zona, per lunghi anni è stata nella disponibilità dei malavitosi del quartiere. Lì dentro si riunivano, occultavano armi e droga, nascondevano latitanti. Praticamente è chiusa da sempre, anche se la spallata definitiva l’ha data il terremoto del 1980. Sui muri perimetrali a stento si riconoscono i segni degli altari. Nei riquadri lasciati vuoti dalle opere d’arte trasferite, l’associazione Alekos ha in animo di riportare le tele, anche se in forma digitale. Il primo progetto prevede la proiezione delle immagini originali, a grandezza naturale, nel posto dov’erano un tempo. Dovrebbe essere il primo passo, per un ritorno verso la normalità di quel luogo che, attualmente, di normale non ha proprio nulla. Regala solo disagio e pessime sensazioni. In fondo alla chiesa, laddove c’era l’altare principale, oggi c’è una spianata senza più nulla. Anzi qualcosa c’è, uno scavo non molto profondo realizzato chissà quando, chissà da chi e chissà per quale motivo. La zona della sagrestia e quella al primo piano, dove c’era il refettorio dei sacerdoti, hanno subito in tempi recenti (circa quindici anni fa) un leggero restauro lasciato a metà. Sui muri c’è ancora la calce grezza, a terra dentro alla stanza dove i sacerdoti indossavano gli abiti sacri c’è abbandonata una vasca da bagno. Il dolore più grande arriva dentro la grande sala del refettorio che affaccia sull’antico chiostro che oggi è inglobato in un palazzo di via Pietro Colletta. Secondo gli storici napoletani del ’700 e dell’800, il pavimento del refettorio era un pezzo pregiato che tutti gli studiosi andavano a guardare. Era stato realizzato con i blocchi di marmo recuperati dal ginnasio che si trovava in quel luogo: solo un ingenuo poteva pensare che quel pavimento storico fosse ancora al suo posto. Oggi quella grande sala è pavimentata con mattoni moderni. L’ultima delusione.