Furti e sacrilegi la cappella delle fate si sta dissolvendo
A Napoli, un tempo, c’erano le fate. Sembra l’inizio di una bella favola, invece solo l’incipit è dolce; il resto della storia è fatto di abbandono, furti e profanazioni subite dalla «chiesa delle fate» che in realtà si chiama Santa Maria Porta Coeli e San Gennaro. Nome lungo per una cappella piccina arrampicata ai fianchi dell’Arenella. Le fate erano riunite in un borgo di campagna che i napoletani, dal 1400 in poi, elessero a luogo di ristoro per il corpo e per la mente. Era il minuscolo borgo delle due porte all’Arenella, che esiste ancora e conserva intatto il fascino della sua storia. In cima a via Cattaneo c’è uno slargo sul quale affacciano ancora le due antiche porte, che poi sono solo due archi piccolini. Attraversando quello di sinistra si entrava nel vico delle fate che oggi si chiama più pomposamente «Arco San Domenico», quello di destra invece portava al vico Molo alle due porte che conserva lo stesso nome: «molo» perché affacciava direttamente sul mare di Napoli. Oggi, invece, si specchia sui caselli della tangenziale. Subito la prima delusione: le fate del vicolo non erano fate vere; erano semplicemente le lavandaie del Vomero. Sull’origine del nome fantastico ci sono diverse ipotesi: alcuni sostengono che venivano considerate magiche per la capacità di far tornare splendenti gli abiti usando cenere di legna e olio di gomito; altri dicono che la magia stava nella capacità di raccogliere elemosine per comprare cenere e tinozze; la versione più accreditata racconta che le lavandaie venivano chiamate «fate» perché erano tutte donne di quell’incredibile bellezza che solo le popolane di Napoli possiedono, e mentre strapazzavano i panni sui lastroni di pietra lasciavano intravedere le loro forme. Prima di iniziare il lavoro, e alla fine della giornata, le fate sbucavano dal loro vicolo, imboccavano quello confinante e andavano a sentir messa in una cappelletta piccola ma straordinariamente ricca. La chiesa l’aveva fatta costruire una nobildonna della famiglia di Pozzuoli dei «Di Costanzo». Donna Isabella che trascorreva lunghi periodi nella casa di famiglia in collina, aveva scoperto che per ascoltare la messa i campagnoli della zona si incamminavano in percorsi lunghissimi e tortuosi. Così nel ’600 fece costruire la cappella con il principale scopo di rendere meno complicata la vita della gente del posto. Divenne, quella cappella, anche il luogo di sepoltura della famiglia Di Costanzo. Poi col passare degli anni e con la crescita della città il borgo non fu più isolato e la necessità di avere quella chiesetta fu meno impellente. Così venne ceduta alla deputazione di San Gennaro. Fino a venti anni fa la chiesa era ancora attiva, malridotta ma attiva. Poi un giorno è stata chiusa e nessuno più l’ha riaperta. Così oggi quell’antico luogo sacro è invaso da erbacce e umidità, ha le pareti color verde muffa e ha perduto gran parte dei quadri e degli arredi. Resiste solo una piccola statua di Gesù in una rientranza sulla parete destra. Di fronte aveva una statua della Madonna che non c’è più. La chiesa è protetta da un cancello verde intenso alle spalle del quale è cresciuta una giungla di rovi che ha aggredito anche i due scalini di marmo. Il portone di legno è aperto: dicono che serve a far circolare l’aria per evitare che l’umidità divori ogni cosa e si infili nelle pareti del palazzo che l’affianca. Al centro della chiesetta sono ammassati i pochi sedioli di legno rimasti. Non è una maniera per tenerli vicini: quell’ammasso di legni serve ad evitare che si cada dentro il rettangolo sul pavimento rimasto aperto: era la terrasanta, lì dentro c’erano i morti nobili. Oggi è un grande buco vuoto, non ci sono più bare né ossa, e chi ha rimosso il marmo di protezione, nella fretta lo ha ridotto in pezzi. Sulla sinistra rispetto all’altare resistono i monumenti funebri dei più importanti membri della famiglia Di Costanzo. Si tratta di tre sarcofagi ben scolpiti con le sembianze delle persone deposte lì dentro. Uno è stato violato: spostato il coperchio per arrivare alle ossa e rubare gli oggetti preziosi con i quali l’uomo era stato seppellito. Gli altri due, resistono, sporchi e malridotti ma sani. Il marmo dell’altare è stato estirpato dalla base, come capita in quasi tutte le chiese abbandonate. L’area della sagrestia è malconcia e la fontanella seicentesca che l’abbelliva non c’è più. Anche la scaletta che sale fino al campanile fa venire i brividi. Era stata creata per i campanari d’un tempo, piccina e strettissima: ad ogni passo bisogna far forza per disincastrarsi e riuscire a raggiungere il gradino successivo; ad ogni nuovo scalino il sussulto della struttura fa pensare a un possibile cedimento. Lassù, in alto, la campana è quella di un tempo. Purtroppo anche la trave di legno che dovrebbe reggerla è antichissima, e marcita: in questo caso il rischio che la campana possa finire sui passanti è decisamente alto. Rigorosamente vietato anche avventurarsi sul coro ligneo che sovrasta l’ingresso e sostiene a malapena quel che resta dell’organo. Nella chiesetta, secondo gli abitanti della zona, di tanto in tanto arriva un sacerdote per verificare le condizioni. Più raramente si avventurano lì dentro studiosi e architetti. L’ultimo ad entrarci è stato Marcello Lo Cascio per un sopralluogo che l’ha lasciato attonito: si aspettava lo stato di abbandono, non quella devastazione.