Le chiese abbandonate Santa Maria del Purgatorio

L’altare dell’800 usato per smontare i motorini rubati

15 maggio 2010 - Paolo Barbuto
Fonte: Il Mattino

Santa Maria del Purgatorio «Cos’è quella roba?» nel silenzio anche un sussurro pare un urlo e accelera il battito. Andiamo a dare un’occhiata da vicino: «Quella roba» è un pezzo di ciclomotore abbandonato su un altare del 1800. La curiosità del fotografo è soddisfatta. Il moto di stizza e rabbia, se possibile, cresce ancora di più di fronte a quest’altro schiaffo in faccia alla città. Napoli, ex centrale del latte. In fondo alla stradina si nasconde un pezzo di storia di Napoli, un pezzo dimenticato e quindi ridotto in malora: il cimitero delle 366 fosse, quello dei colerosi; ma la chiesetta del Purgatorio è la rappresentazione estrema dell’abbandono di quei luoghi. Se gli automobilisti distratti e imbestialiti per la coda, voltassero lo sguardo a sinistra al casello della tangenziale di Corso Malta, si accorgerebbero che sotto la collina di Poggioreale, in mezzo a una giungla di alberi, rovi e sterpaglia, c’è il rudere di una chiesa-simbolo della Napoli di metà ’800. Santa Maria del Purgatorio Sorta nel 1837 per accogliere i morti dell’epidemia di colera prima della sepoltura al cimitero loro dedicato, questa chiesa è stata lungamente frequentata dei napoletani: tutti avevano un parente tra i diciottomila morti portati in quel luogo, non c’era distinzione fra ricchi e poveri, fra nobili e borghesi. E tutti venivano a sentire messa qui, per onorare e ricordare una sorella, un figlio, una madre, un marito. Alla chiesa si accedeva per mezzo di una scaletta di bel marmo. Oggi dei marmi non c’è più memoria e i gradini sono talmente malmessi che ad ogni passo tremano vistosamente, come se volessero venire giù da un momento all’altro. La scaletta è completamente coperta da rovi che si afferrano alle scarpe e ai calzoni, e da erbacce che sono diventate alte come alberelli: per raggiungere l’ingresso bisogna saper sopportare le spine che s’infilano nella carne. Ma il dolore fisico è poca roba rispetto al dolore che provoca la vista dell’interno della chiesa. Realizzata da Leonardo Laghezza, viene descritta nella «Napoli» rivista dal Chiarini sulla base del Celano, come un piccolo gioiello, con un «altare di marmi scelti bianchi e neri». Alla parete dietro l’altare c’era una tela del Salvatore datata 1600, di mano ignota, portata lì da un fedele. Le pareti erano affrescate da Serafino Giannini. Deve essere stata bella, prima che la città decidesse di destinarla alla distruzione. Quel che oggi si vede nella chiesa è semplicemente una sequenza di animali morti per terra, su un pavimento che non c’è, perché è coperto da un palmo di terreno e schifezze. Ciò che salta agli occhi è la recente trasformazione in officina, con tanto di armadietti addossati alle pareti, pezzi di motore, attrezzi sparsi ovunque. L’altare di marmi scelti c’è ancora, purtroppo. No, non è un errore quel «purtroppo». Perché gli idioti che hanno fatto i meccanici qui dentro l’hanno usato come bancone. L’hanno preso a martellate e ridotto a un tavolaccio scheggiato, ci hanno vomitato sopra litri e litri d’olio per auto che, con il tempo, s’è infilato nella pietra porosa e l’ha ridotto a una macchia nera e collosa, sulla quale adesso c’è di tutto. Nemmeno le pareti affrescate sono state risparmiate. Una bella mano d’azzurro-Napoli ha cancellato ogni traccia del passato e forse ha ripulito la coscienza di chi si sentiva «osservato» dai santi e dai martiri dipinti dal Giannini nel 1837. La chiesa del Purgatorio, però, è stata abbandonata anche dai meccanici che si dedicavano a smontare motocicli di dubbia provenienza. Oggi è in balia degli animali, delle piante e delle intemperie. Non c’è più nemmeno il portone che la protegge: è semplicemente una orrenda grotta in cui nessuno ha più voglia di mettere piede. (

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