Vandali e incuria palazzo Penne a rischio crollo
Il marmo bianco rosa e grigio incornicia un brutto portone bruciato dalle intemperie e dall’incuria. Piazza Teodoro Monticelli, cuore della Napoli medievale, dietro a un furgoncino pieno di vecchi televisori si nasconde palazzo Penne, simbolo della storia della città, rappresentazione fisica di un inesorabile degrado. Da un decennio appartiene alla Regione che lo ha ceduto in uso all’Orientale. Lo stato di abbandono della struttura ha aperto le porte a un procedimento legale. Lo scorso novembre il pm Pasquale Ucci ha firmato la citazione diretta a giudizio a carico del presidente della Regione Bassolino e del deputato del Pd Pasquale Ciriello, ex rettore dell’Istituto universitario Orientale, a cui il Palazzo era stato affidato: l’accusa è di aver violato l’articolo 733, a proposito del presunto «danneggiamento di cose d’interesse storico e artistico per mancata azione di restauro». Il processo si aprirà il prossimo 26 ottobre. Dietro al portone tutto rovinato si apre il cortile dell’antico palazzo. Da lì parte una dolorosa via Crucis: marmi sfregiati, piperno divelto, pavimenti rimossi, giardini ridotti a inestricabile savana. Quel palazzo è lì da 604 anni durante i quali: ha resistito a guerre e inondazioni, ha retto a terremoti e colpi di mortaio, ha sfidato dominazioni straniere e assalti del popolo napoletano. Però l’incuria sa colpire più dei terremoti e dei bombardamenti, così oggi il palazzo si sta letteralmente accasciando. Le travi dei solai, robusti tronchi che sono lì da sempre, si sfaldano e cedono; i pavimenti sprofondano, le colonne si spaccano. Succede da quando le case, ancora abitate fino agli anni ’70, sono state abbandonate. Le coperture dei soffitti si sono arrese alla pioggia; l’acqua ha cominciato a infilarsi dappertutto e ha fatto marcire ogni cosa. Nel 2008, con 100mila euro, il tetto è stato sigillato, ma evidentemente era troppo tardi. Fino al dopoguerra il palazzo era gestito dagli eredi dell’ultimo proprietario Teodoro Monticelli, poi fu acquistato da una società che voleva trasformarlo. Lettera di sfratto a tutti. Hanno resistito solo due persone, che tutt’ora abitano lì dentro. Il passaggio nelle mani della Regione sembrava l’inizio della svolta di una nuova vita. Oggi è tutto fermo. Sul cortile d’ingresso affacciano nove finestre, comprese quelle che appartenevano all’elegante salone delle feste alla quali partecipava Ladislao di Angiò-Durazzo, del quale il primo proprietario, Antonio da Penne, era segretario. Le finestre sono tutte murate, per evitare acqua, vento e piccioni. Il piccolo portoncino in fondo al cortile si apre sul «vuoto» lasciato dalle scale che conducevano ai piani superiori. Erano di bel piperno nero, sono state rimosse di recente, si trovano abbandonate un po’ ovunque dentro al palazzo. Il corridoio che affaccia sul giardino, che un tempo era il vanto dell’intero quartiere, è interamente puntellato. Blocchi di legno reggono le travi di solaio del piano superiore che sono tutte marcite. Sulla destra del tunnel di assi di legno, le porte degli appartamenti, tutti vuoti. Sulla sinistra, il giardino. Ogni accesso è vietato. È tutto pericolante, blindato, per bloccare l’accesso. Dentro alle case abbandonate resistono i segni degli ultimi inquilini: foto degli anni ’50, breviari, buste colme di vestiti. Resistono anche i pavimenti antichi: in qualche stanza, da sotto al linoleum fanno capolino le mattonelle esagonali di cotto che sembrano originali del ’400; in altri ambienti la plastica di copertura lascia comparire affascinanti «riggiole» più recenti, ma bellissime. Il viaggio nel giardino è un colpo al cuore. Una gabbietta di canarino è stata fatta prigioniera del divieto d’accesso. L’uccellino morto di fame e sete s’è mummificato. Le piante hanno invaso ogni cosa e salgono lungo le pareti antiche e colme di fratture; anche le crepe salgono minacciose verso l’alto. Le mura che stavano per crollare sono state puntellate con colate di cemento. Dietro alla prigione di assi di legno, nel corridoio con gli archi del ’400, l’unico segno «vivo» è un’edicola votiva. La Madonnina che era custodita lì dentro è stata rubata. L’edicola, di un bel marrone luccicante, però, resiste. Aspetta il giorno il cui il palazzo rinascerà. L’attesa sarà lunghissima.