Tempio sbarrato per mezzo secolo Ora solo macerie
L’ultima volta che un prete entrò qui dentro era il 1949: disadorno e degradato, lo descrisse andando via. E, chiudendosi la porta alle spalle, decretò la fine di un luogo sopravvissuto a duemila anni di storia. Il tempio della Gaiola si trova in una delle zone più suggestive della città. Proprio nella curva dov’è la discesa pedonale verso il mare, c’è un rudere che nasconde una storia antica e appassionante. È malridotto e la scritta «lucullanum» incisa nel marmo incastrato nella facciata, quasi non si legge più. Le frotte di bagnanti che la bella stagione trascina qui, lo sfiorano e non s’accorgono nemmeno della sua esistenza. Il tempio è un esempio raro di sovrapposizione di culti: dall’adorazione degli dei a quella di Cristo non ha mai smesso di essere luogo di devozione, fino a cinquantanni fa (51 per la precisione) quando venne definitivamente abbandonato. Fondato da Publio Vedio Pollione assieme alla storica villa «Pausylipon» nel secondo decennio Avanti Cristo, quel tempietto era un’ara votiva per i sacrifici, sistemata nella zona più alta della lussuosa dimora. Con l’avvento del cristianesimo quel luogo, come tanti altri nella città di Napoli venne trasformato in chiesa. Ma i segni dell’iniziale creazione non furono cancellati del tutto. E sono visibili ancora oggi, nonostante lo stato di degrado e abbandono del luogo. Sulle pareti laterali del tempio ci sono ancora le lesene originali che, un tempo, dovevano essere dipinte e che oggi sono ricoperte da una mano di bianco data chissà quando e chissà da chi. Si tratta dell’unico particolare ancora visibile di quel che resta della struttura che, nonostante tutto, conserva l’antico fascino. Il tempio è strutturato su due livelli distinti. La parte sottostante non è visibile dalla strada perché si trova su una proprietà privata. È composta da un breve porticato con tre archi sul fianco e uno sul frontale, al di sotto della facciata. Gli archi portano verso una unica grande camera che ha le stesse dimensioni della chiesa sovrastante. In età augustea, forse, era il luogo dove i sacerdoti si preparavano prima dei sacrifici votivi, oggi è una sala dalle pareti con il tufo nudo: spogliata completamente di tutti gli stucchi che la ricoprivano in antichità. La chiesetta che si trova al livello superiore è piccolissima coma la raccontano i (pochi) documenti ufficiali: non più di 25 metri quadri. È in completa rovina, anche se ci sono ancora i segni della presenza di operai che in un’epoca recente hanno dato inizio a lavori appena abbozzati e praticamente mai iniziati. Sui muri costruiti dai romani, sono piantati i grossi chiodi in sequenza, nello stile degli operai che li utilizzano per appendere gli abiti prima di iniziare il lavoro. Sul fondo si intuisce appena il luogo nel quale doveva essere stato sistemato l’altare di tufo, del quale scrisse l’ultimo parroco prima di chiudere per sempre la cappella: ora non c’è più nulla, solo l’impronta sul muro retrostante. Alle spalle dell’altare c’erano tra nicchie, una grande al centro e due piccole ai lati. Oggi al posto di una delle nicchie c’è una apertura, sicuramente realizzata dagli operai, perché ha ancora inchiodate le assi di legno che servivano a dare forma al cemento nel riquadro. Nell'altra nicchia, invece, sono conservate malconce scarpacce da lavoro. Fa venire le lacrime agli occhi quel che resta del pavimento. Sono solo poche mattonelle laterali, sfuggite chissà come allo scempio e alla devastazione. Raccontano di un’alternanza di bianco e rosso pompeiano che, forse, aveva radici antiche quanto la chiesa. Il rudere cerca a tutti i costi di farsi notare. All’esterno il timpano (il triangolo che sovrasta l’ingresso), di certa origine romana, urla la sua presenza in mezzo ai rovi e alle erbacce che lo aggrediscono da ogni parte. Era circondato da una elegante cornice che oggi è mezza crollata. Se un bagnante d’estate si fermasse a guardarlo, però, ne scoprirebbe ancora la bellezza intensa e antica.