Dieci anni dopo, vergogna e bivacco a Villa Ebe
«La giunta comunale ha approvato ad horas una delibera per il restauro in tempi brevi di villa Ebe: 30 giorni per redigere il progetto di restauro, 90 per quello esecutivo. Entro quattro mesi partiranno i lavori». Marzo 2000, il castello è stato dato alle fiamme tre giorni prima, la città è sconvolta, l’Amministrazione promette interventi rapidi. Marzo 2010. A dieci anni dall’incendio e dalle promesse, villa Ebe, costruita in due anni fra il 1920 e il 1922, non è nelle stesse condizioni di allora: se lo fosse sarebbe entusiasmante. È drammaticamente peggiorata: divorata dall’abbandono e dall’incuria, devastata da homeless e disperati che la usano per dormire, mangiare, andare al bagno. Sarà un elegante centro di accoglienza per i turisti dei grandi alberghi del lungomare, s’è detto negli ultimi dieci anni. Verrà riqualificato e diventerà il fiore all’occhiello di Pizzofalcone, s’è spiegato in conferenze e comunicati stampa che si sono susseguiti negli anni. Invece il castello di Lamont Young è ri masto abbandonato e senza manutenzione. Anzi, ad essere onesti un pizzico di cura ce l’avevano le tre famiglie di senzatetto che l’avevano abusivamente occupato e che ci sono rimasti dentro fino a tre anni fa. Poi furono cacciati, e da allora il castello dell’utopia dell’architetto inglese morto suicida tra quelle mura, è stato aggredito con violenza da chi lo utilizza per una notte o due, prima di cercare nuovi alloggi, nuove strade. Così in ogni stanza di quell’incredibile castello, dal salone della musica alle cucine, dal loggiato con vista sul golfo alle bow windows i cui vetri colorati esplosero la notte di dieci anni fa, ci sono segni di bivacco. Di scempio. Colpisce, più d’ogni altra cosa, il gran pavese di magliette, jeans, calzini, mutande, coperte, che si estende in tutte le stanze, senza soluzione di continuità. C’è roba appesa ovunque. Ci sono segni di vita e di presenza in ogni luogo anche se, di mattina, il castello è deserto e gli unici rumori sono quelli degli animali che circolano tra i residui di legno bruciato. Anzi, del tutto disabitato il castello non è: c’è una sentinella che ferma chiunque osi scavalcare il muro che consente l’accesso. È un ragazzone dell’est alticcio e arrabbiato: chi siete? Questa non è casa vostra. Solo quando gli spieghiamo con durezza che il castello non è nemmeno casa sua, si trova un accordo, e arriva il lasciapassare. Il giardino che un tempo era un gioiello di essenze rare e ben accostate, oggi ha preso il sopravvento. La natura è esplosa: il gazebo di ferro battuto s’è accasciato sotto al peso di un rampicante che è diventato gigantesco, gli accessi sono stretti, scavati tra le foglie dai corpi degli abusivi. La porta principale è bloccata, incastrata dal giorno dell’incendio. Ed è un bene che non possa essere spalancata, perché il soffitto che sta sopra quella porta, è in parte crollato e in parte pericolante. Camminarci sotto non sarebbe salubre. L’ingresso è consentito dalla porta della servitù, anch’essa bloccata, ma fortunatamente semiaperta. Al piano terra i segni dell’incendio sono ancora drammaticamente visibili. Il soffitto a cassoni della sala della musica è lì bruciacchiato, della scala elicoidale resta solo l’anima di ferro. Tutt’intorno bottiglie di vino, scatolette di cibo, pacchi di biscotti e panni appesi ovunque. Completamente diversa l’organizzazione del piano superiore, quello che ha la vista più emozionante. Ci sono stanzette di dimensioni più modeste e di struttura più moderna. Sono state occupate da abitanti che sembrano più stanziali. Reti per i materassi, mobiletti per contenere abiti e oggetti personali, libri per avviarsi al sonno durante la notte. Finestre protette da teli e pezze, per evitare al freddo di fare breccia. Colpisce soprattutto la «voglia di normalità» dell’occupante dell’ultima stanza in fondo al corridoio. S’è preso i cartelloni pubblicitari di una banca e li ha appesi alle pareti come poster: rappresentano una famiglia serena, papà, mamma e figlio, che corrono in un prato. Una briciola di romanticismo dentro al castello degli orrori.