Le chiese abbandonate L’Immacolatella a Pizzofalcone Porta murata sul tesoro di Monte Echia
C’è un muro di mattoni davanti al portone d’ingresso. La chiesa che sta in cima al monte Echia è vietata a tutti: fuori i fedeli, fuori i turisti. Perché dentro c’è la devastazione. Segni di crollo, cumuli di macerie, altari spaccati, tabernacoli aperti. E poi sassi, polvere, animali morti ovunque; e lingue d’acqua che scivolano giù dai muri in mezzo a prati verdi di muschio. Potrebbe essere semplicemente il resoconto di una storia d’abbandono. Invece questa è la storia della drammatica fine di una chiesa sorta nel ’700 e rimodernata nell’800, piazzata in cima al monte dove è nata la storia di Napoli e incastrata fra palazzi storici, dall’archivio militare alla caserma Nino Bixio alla Nunziatella. Era un luogo amato dalla gente di Pizzofalcone. Se provate a fare un giro nella zona, ognuno ha un ricordo legato a quella chiesa. Matrimoni, prime comunioni, funerali. Era bella e considerata «importante», perché bastava salire le scale che portavano all’ingresso per avere la città ai piedi. In un colpo d’occhio tutto il golfo, da punta Campanella a Mergellina, con Ischia sullo sfondo e il Castel dell’Ovo così vicino che bastava allungare una mano per toccarlo. Usare l’imperfetto è un obbligo: tempo verbale che conduce inesorabilmente sul territorio dei ricordi. Era bella, era affascinante. Oggi, praticamente, quella chiesa è cancellata dalla vita del quartiere e della città. Le due scalinate d’accesso al portone sono bloccate da muri di mattoni e cemento alti due metri; lo stesso portone verde è schiacciato da una parete grezza. Messaggio fin troppo chiaro: lì dentro non si deve entrare. Il pericolo statico era incombente vent’anni fa quando la chiesa venne sgomberata. Lo è ancora di più oggi che la struttura è completamente devastata. Quando a metà del 1800 l’architetto Jaoul restituì la chiesa al parroco Scaramella (dopo aver demolito la precedente struttura del ’700 e averla allargata), era ricca di materiali pregiati e opere d’arte. Nel 1856 Carlo Celano, meticoloso autore di «Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli» raccontava che c’erano cinque altari di marmo pregiato, cancelletti di ferro dorato, statue di pregio nelle nicchie alle spalle dei tre altari frontali, tele di Raffaele Spanò e Giovanni Girosi alle pareti. Una meraviglia, resa ancora più imponente dalla grandezza della struttura a croce greca, una «immensità» che ancora oggi le persone che hanno frequentato quel luogo ricordano con emozione. Oggi due dei cinque pregiati altari in marmo sono sepolti da macerie, statue e tele non sono più all’interno dell’edificio sacro; ed è una fortuna, perché ogni cosa che c’è dentro la chiesa porta i segni dell’abbandono, della devastazione, del vandalismo. Sull’altare maggiore il tabernacolo è aperto, non c’è segno di oggetti all’interno, ma giusto lì davanti c’è un piccione putrefatto che probabilmente ha usato quel luogo sacro come nido. Il marmo è spaccato in più punti, come se un operaio maldestro avesse provato a smontarlo per portarlo via. L’antica porta di legno sulla destra è letteralmente sradicata dal muro, al centro della balaustra di marmo c’è un pallone supersantos incredibilmente rimasto gonfio, anche se ricoperto da due dita di guano. Anche gli altri altari, quelli che emergono dalle macerie e sono visibili, mostrano i segni della devastazione, ma almeno le porticine che proteggono l’ostia non sono aperte: tutte ben chiuse a chiave. Sul pavimento, che doveva essere di rilucente marmo bianco, ci sono quattro dita di polvere che rendono impossibile scorgere segni di intarsi o scritte. I banchi dove i fedeli ascoltavano la messa sono ammassati ai lati della navata: bisognava fare spazio. Chissà per quale motivo, chissà quando. Quel che accade dietro alle porte murate non può saperlo nessuno. 2. continua