Gioiello barocco tra rovine, abusi e bare profanate
C’è una crepa così larga che ci passerebbe la mano. Parte dall’alto, dove una volta c’era il soffitto, e cammina lungo tutto il muro alle spalle dell’altare fino a perdersi dentro al pavimento. S’è creata lenta e inesorabile, insieme ad altre mille, la sera del 23 novembre del 1980, data ufficiale della morte della chiesa. San Giuseppe delle Scalze, salita Pontecorvo, gioiello abbandonato nel cuore di Napoli. La chiesa è sporca, fatiscente, malridotta: è (meglio dire sarebbe) uno dei simboli dell’architettura barocca napoletana, opera di Cosimo Fanzago. È proprio quello stesso barocco che oggi viene osannato e celebrato nei musei della città, solo che qui a salita Pontecorvo non sciamano folle di turisti entusiasti, passano persone distratte, abituate a quello scempio. La chiesa di San Giuseppe delle Scalze è il simbolo delle battaglie del «forum Tarsia», cento cittadini un po’ folli e molto appassionati, che vogliono ad ogni costo far rivivere quel gioiello. Nelle sale che circondano la struttura, e che vengono condivise con la comunità «Servire», organizzano incontri e convegni: quando ci riescono, spalancano le porte di quel che resta della chiesa (lo faranno anche oggi per chi vorrà dare uno sguardo), ma lo spettacolo è desolante, da far accapponare la pelle. Il soffitto che crollò dopo aver ricevuto i colpi di maglio del terremoto, è sostituito da una poderosa copertura di tegole; laddove una volta c’erano le tele di Luca Giordano e Francesco De Maria, ora c’è solo il tufo nudo. I dipinti sono custoditi al museo di Capodimonte, era l’unico modo per preservarli dall’abbandono e dai ladri: «Subito dopo il sisma del 1980 questo posto fu preso di mira. Portarono via quasi tutti i marmi, perfino le colonne che reggevano la balaustra dell’altare. Quella roba fu ritrovata un anno dopo in un negozio d’antiquario di Udine. È stata recuperata e conservata», il racconto è di Ezio Esposito del «forum Tarsia» che abita di fronte alla chiesa e la ama con forza. Fa da cicerone, spalanca le porte delle scalette che arrivano al tetto dove c’è una vista mozzafiato sulla devastazione di marmi spaccati e spaccature impressionanti. Ma lassù si può anche scoprire, da vicino, la meraviglia di quel che resta degli affreschi. Racconta Ezio Esposito, autore di un presepe artistico riprodotto nei libri di tutto il mondo: spiega una storia che diventa realtà materiale. «Quello è il bassorilievo del cardinale Giunta», indica uno dei pochi beni che hanno resistito al tempo e all’incuria. «Lì c’è quel che resta del cardinale», spiega mostrando una cassettina rossa, alla mercé di chiunque, dalla quale spuntano le ossa del prelato. Poi si scivola giù, sotto al pavimento della chiesa pensata da Fanzago. Nella terra santa dove per secoli hanno riposato i resti delle monache del convento collegato alla chiesa e dove i nobili della zona avevano la possibilità di deporre i loro cari. Scivolare laggiù, nel regno dei morti, all’inizio regala un senso di pace. Non ci sono i segni del terremoto. Qui non è arrivata la spallata che ha mandato in malora la chiesa. Però ci sono arrivati gli uomini, e hanno prodotti danni più gravi. Hanno giocato con le ossa, aperto bare, provato a eseguire riti (ne parliamo più approfonditamente nell’articolo sul fondo della pagina). Roba che provoca rabbia e ripugnanza. Tornare in superficie, anche se si finisce nella polvere e tra le crepe, restituisce ossigeno. Sulla facciata della chiesa, protetta da una impalcatura dopo l’ultimo crollo di intonaci che risale a cinque anni fa, le tre statue imponenti che guardano la strada sono annerite e spaccate, ma restano il simbolo di quel luogo. Al centro c’è San Giuseppe, ai lati San Pietro d’Alcantara e Santa Teresa. Ezio Esposito le guarda e sorride. Sono volti di famiglia per lui: «Ci proteggono, anche se la città s’è dimenticata di loro». (1 / continua)