Il cimitero dell’800 abbandonato e distrutto
Il compagno d’avventura abbassa la macchina fotografica e chiede pietà: «Basta andiamocene via, ci stiamo lazzariando». Meraviglie del dialetto. Una sola parola «lazzariare», spiega che braccia e gambe sono martoriati dai graffi e dalle spine dei rovi. Per raccontare la magia e il disastro del «camposanto dei colerici», gioiello di monumenti e architettura dell’800, bisogna sottoporsi a quel tormento. Ma ne vale la pena, per lanciare il grido d’allarme. Superato il degrado dei ponti della Tangenziale di corso Malta, alle spalle dell’ex centrale del latte, in in fazzoletto di terra confinante con il cimitero delle 366 fosse, c’è la storia dei napoletani che furono travolti dal colera tra il 1836 e il 1837: cappelle, marmi, monumenti di incommensurabile valore storico e artistico. Quel luogo era stato progettato come un giardino della memoria. Oggi è la giungla dell’incuria. Lapidi frantumate, cappelle spogliate, arbusti e rovi che hanno preso il sopravvento e hanno inglobato tutto, nascosto le meraviglie che hanno resistito al tempo e coperto gli orrori commessi dall’uomo. Il primo segnale traumatico dell’abbandono si trova all’ingresso, esattamente quattro passi dietro al brutto cancello di ferro che ha sostituito l’antica inferriata. Sulla sinistra c’è la chiesa del purgatorio, progettata da Leonardo Laghezza, che disegnò anche il resto del camposanto. Anzi, ci sono i resti di quella chiesa: la scaletta che consente di arrivare al portone, aperto e malridotto, è sepolta dalle erbacce; l’interno della struttura è stato vandalizzato, depredato e, in più punti, dato alle fiamme . Sull’altare che Carlo Celano a fine ottocento raccontava «di marmo bianco e nero», ci sono ancora i resti dei motorini. Questo posto, nella sua più recente e orrenda trasformazione, è stato usato come officina per smontare ciclomotori, chissà di quale provenienza. La stradina di cinquanta passi in leggera salita, che conduce ai monumenti dell’800 non è più visibile, coperta da erbacce. Il resto della struttura è imbarazzante. In mezzo alla vegetazione si riconosce la cappella Caracciolo, la più grande del cimitero. Ne restano solo le strutture esterne, anche piuttosto malridotte: gli embrici smaltati bianchi e neri che coprono la cupola, sono sollevati dalle erbacce. L’interno è stato completamente spogliato. la cupola era ornata da oltre cento fregi, spariti. I marmi che ricoprono i muri sono per la maggior parte staccati e già «numerati», come se qualcuno li avesse preparati per portarli altrove e rimontarli. Su quei marmi ci sono ancora i graffiti dei tempi di guerra. La data dei disegni è 1944: forse si veniva qui per ripararsi, sicuramente qualcuno ci è venuto in compagnia di una donna e ha disegnato i particolari erotici degli incontri. Le altre cappelle alle quali si riesce ad accedere, sono tutte devastate. Le lapidi che si riescono a intravedere sono perlopiù spaccate e le incisioni sono quasi illeggibili. Molti dei monumenti presentano evidenti segni di vandalizzazione, anche se la natura li ha avvolti e nascosti. Sicuramente qui dentro i ladri possono agire indisturbati e, probabilmente, conoscono percorsi alternativi a quelli ufficiali. Il 90% del cimitero dei colerosi è vietato: la giungla è troppo fitta, solo il teleobiettivo riesce a fermare qualche immagine. Intorno al 1960 qui dentro si tentò un esperimento: il cimitero fu trasformato in serra comunale. Ma i giardinieri portarono avanti, e alla fine vinsero, una lunga battaglia per lasciare il luogo: «Abbiamo paura dei morti». Nel 2006 il professor Paolo Giordano della Sun, portò qui un centinaio di studenti di architettura. Il luogo fu ripulito, tutti i monumenti censiti. Da quel giorno è tornato di proprietà dei vandali e dei ladri, come è sempre stato. Com’è ancora oggi.