La storia prigioniera nel palazzo che crolla
Il portone che si apre su vico de’ Maiorani è malconcio; la catena, che tiene insieme le gigantesche ante passando per due buchi nel legno, è serrata da un lucchetto. Quando quel portone, cigolando, si spalanca, un odore acre, di umido e putrescente, invade le narici e invita a restare fuori. Invece bisogna entrare per capire: al secondo passo dentro l’atrio, il tuffo nell’inferno di quel luogo è già compiuto. Si avanza a tentoni perché non c’è illuminazione; il flash della macchina fotografica mostra cataste di documenti scivolati giù dagli scaffali, e abbandonati al destino infame di cibo per topi. Sulla destra si intuiscono scale. Sono diroccate. Cercare il corrimano è un errore grande: nel buio non si vede il guano e non s’intuisce qual è il materiale che si incolla al palmo. Pazienza, dopo bisognerà lavarsi con il disinfettante. Al primo piano un raggio di luce illumina i fori delle «siringhe» di cemento che salvarono il palazzo dopo il terremoto dell’80, al terzo piano si sbuca nella sala che custodisce i documenti dell’archivio storico napoletano dal 1861 ad oggi. Infiltrazioni e mancata manutenzione hanno devastato i soffitti. Nell’immenso salone centrale, ci sono faldoni che, messi in fila, coprirebbero ottocento metri: sui documenti e sulle delibere del Comune da metà ottocento a oggi, ci sono residui dell’intonaco caduto dall’alto. In alcune salette laterali, i controsoffitti sono piombati giù di colpo mettendo in luce antiche e «preoccupanti» travi di legno che reggono (fino a quando?) il solaio. Per terra ci sono resti degli animali che trovano rifugio qui dentro: vivono, costruiscono nidi e muoiono anche. Nella foto che vedete pubblicata al centro di questa pagina, c’è solo uno dei resti che sono in bella mostra: un tempo era un piccione, oggi è un mucchio d’ossa sistemato in ordine sul pavimento. Roba da filmaccio horror. E invece è materiale attuale, scatti dell’altro giorno. Quando Diego Guida è entrato qui per la prima volta, gli sono cadute le braccia. All’assessore responsabile degli archivi storici cittadini, era stato spiegato che la situazione era drammatica, ma nemmeno lui s’aspettava un quadro così deprimente. Anche la soprintendente agli archivi, Maria Luisa Storchi, ha chiesto di ispezionare questi luoghi. Ci è entrata per la prima volta mercoledì scorso e ha capito subito che bisogna agire in fretta per salvare quel patrimonio e liberare gli antichi documenti dalla prigionia di quel luogo fatiscente. C’è una data precisa in cui si può individuare la «morte» ufficiale di questo archivio. È il sei di maggio del 2002 quando, su proposta dell’allora assessore Giulia Parente, la giunta presieduta dal sindaco Iervolino ha accettato di lasciare ai frati di San Lorenzo una parte delle proprietà comunale. Con voti unanimi si deliberò di concedere, «in comodato, a titolo gratuito, per anni nove alla provincia religiosa dei frati minori conventuali», una serie di spazi del complesso monumentale. Quegli spazi confinavano con l’ingresso principale dell’archivio che, dopo quindici giorni, venne murato. perciò oggi la sola via d’accesso è alle spalle della struttura, su vico de’ Maiorani, attraverso le scale pericolanti. Adesso, nella parte «concessa» ai frati, lungo le sale e i corridoi che un tempo conducevano ai documenti storici, vengono organizzati convegni e mostre. Sono ospitati anche i ricevimenti degli sposi che si scambiano le fedi nella vicina chiesa di San Lorenzo: c’è perfino un’area pronta per l’allestimento delle cucine. Tutto lecito, per carità. Ma tutto difficile da capire, a partire dalla decisione presa dalla giunta nel 2002, che ha decretato la fine dell’archivio. Fra due anni scadrà la concessione gratuita ai frati. Non si sa quali sono le intenzioni del Comune.