Progetti «mobili» e cantiere: un caso lungo 20 anni Discariche fantasma per avere i fondi Ue

Discariche fantasma per avere i fondi Ue. La Corte dei Conti condanna i politici

La Corte dei Conti condanna i politici. Uno spreco milionario per un sito mai realizzato. I giudici: gli amministratori sapevano che era irrealizzabile
9 giugno 2008 - Marco Imarisio
Fonte: Corriere della Sera
«È tutto un complesso di cose». Nella sua memoria difensiva un imputato ha trovato questa giustificazione. Almeno sul punto non aveva torto. In Campania, quando si parla di rifiuti è sempre un complesso di cose. Fin dai primordi, come dimostra l'ultima sentenza della Corte dei conti regionale, la prima ad occuparsi di una delle tante vicende di cattiva amministrazione alla base dell'odierno disastro, condannando i responsabili a rimborsare il danno inflitto alla collettività.
La storia riguarda la mancata realizzazione nel Beneventano di un impianto di selezione e di una discarica. Il progetto veniva giustificato con «lo stato di assoluta emergenza in materia di smaltimento dei rifiuti». Era il 1988, vent'anni fa. Nonostante «l'assoluta emergenza» non se ne fece nulla.
L'idea venne agli amministratori delle comunità montane del Fortore e dell'Alto Tammaro, i quali — dettaglio da niente — non avevano alcun titolo per decidere l'apertura di una discarica, materia allora di competenza della Regione, ma intravedevano in lontananza la possibilità di ottenere un cospicuo finanziamento misto stanziato dal Cipe e dall'Unione europea. Ne venne fuori un progetto sballato, dove ogni protagonista, dalla Regione ai sindaci di piccolissimi comuni passando per le aziende vincitrici degli appalti fino ai cittadini, ha fatto in modo di contribuire al fallimento. Scrivono i magistrati che hanno condotto l'inchiesta penale: «Dall'esame di tutti i comportamenti emerge un quadro di frantumazione della responsabilità che ha portato ad una irresponsabilità collettiva e diffusa». La sentenza della Corte dei conti identifica questa piccola storia come un caso di scuola sulla gestione dei rifiuti in Campania. A suo modo, un prototipo. Indietro al settembre 1988. Una volta avviate le procedure per ottenere il finanziamento del Cipe, le due comunità montane approvano il progetto commissionato alla società Castalia e il 3 ottobre lo inoltrano alla Regione. Tutti d'accordo, l'impianto di riciclaggio è in località Praianone, nel comune di Morcone, avanti con la dichiarazione di pubblica utilità e gli espropri. Peccato che nella fretta nessuno dica nulla al sindaco e agli abitanti.
Ne consegue che la discarica diventa mobile, qual piuma al vento. Soltanto due mesi dopo, il 28 dicembre, viene approvata una delibera con la quale si sposta l'opera di qualche chilometro in linea d'aria, in località Selvapiana. L'anno seguente, l'area individuata per l'intervento cambia ancora, questa volta si ferma in località Villa Viola, ma la sosta è breve, appena un mese. A cantiere aperto, il sindaco di Morcone ha un ripensamento. A questo punto entra in scena la commissione di esperti, che con un colpo di teatro «battezza» una nuova area, ma nel Comune di Colle Sannita, dove non sembrano gradire. Proteste, resistenze, scontri. Come non detto. Si rifà tutto, con la trovata di lasciare un margine di incertezza. Il nuovo bando fissa la costruzione dell'impianto nel Comune di Morcone o in quello di San Giorgio La Molara. Intanto si approva, poi si vedrà. Ma anche qui entrambi gli enti locali, non entusiasti dell'idea, si guardano bene dal mettere a disposizione i terreni.
Il tour del progetto, sempre più itinerante, fa tappa in altre sei località del circondario, ricevendo pochissimi consensi di pubblico e critica. L'ultima possibilità viene individuata nel comune di Ginestra degli Schiavoni, ma anche qui «la scelta non viene confermata dall'Amministrazione locale» scrive con pudore la Corte dei conti. Le due comunità montane chiedono alla Regione una proroga di 12 mesi, gentilmente accordata. Passano invece due anni, la Regione nomina un commissario ad acta per realizzare il progetto, ma «l'individuazione di nuovi siti non dava esiti positivi ». A cinque anni dalla sua concessione, il Cipe revoca l'agognato finanziamento. Dopo aver aperto e richiuso cantieri in serie, la Castalia porta in tribunale le Comunità montane dell'Alto Tammaro e del Fortore e le fa nere, obbligandole al rimborso di un milione e centomila euro. Così la Corte dei conti: «Il rapido susseguirsi delle delibere e i continui mutamenti nell'individuazione del luogo consentono di affermare la consapevolezza degli amministratori della Comunità montana circa l'irrealizzabilità dell'impianto nel sito originariamente individuato e l'aleatorietà dell'iniziativa». La progettazione, scrivono i giudici, «non è mai stata effettivamente esecutiva ». C'è una ragione, per questo agire a casaccio. «L'urgenza di “sfruttare” l'opportunità del finanziamento Cipe ha portato gli amministratori ad assumere tutta una serie di obblighi sottovalutando i limiti insiti nella propria competenza istituzionale e l'assenza di strumenti giuridici per giungere alla realizzazione dell'impianto ».
Ai responsabili di questo capolavoro, la Corte dei conti ordina di rifondere, ognuno secondo le sue responsabilità, i soldi versati all'azienda Castalia. I presidenti, gli amministratori, i consiglieri che votarono le delibere, tutti si sono macchiati di «colpa grave nei confronti della collettività». L'unico sconto viene concesso «per l'oggettiva difficoltà di controllo della vicenda anche in relazione alle proteste della popolazione ». Vent'anni, e sembra oggi.

 

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