Le favelas di «Monnezza City»
Vivere con la mondezza. Condividerne il lezzo ammorbante e abituarsi. Allo scenario di montagne di rifiuti, neri vulcani di ecoballe, discariche. Rassegnarsi
ai segni che l'aria avvelenata lascerà sul tuo corpo e su quello dei tuo figli. Si vive così a Napoli e in molte aree della Campania. Per capire basta imboccare l'Asse Mediano, l'arteria che dalla città porta verso il Casertano: la strada che ti conduce nell'inferno di «Monnezza City».
Primo cavalcavia. Irritante. Perché tra gli altri segnali ce n'è uno che sembra uscire da un libro di pessime barzellette. Segnale di pericolo per attraversamento mucche. Sì, come se fossimo in Valtellina c'è il pericolo che delle vacche bianche e con i capezzoli grondanti latte possano tagliarti la strada su un viadotto. E invece siamo all'altezza dell'inferno di Scampia, il quartiere-stato della camorra. E qui la prima scena. Ci sono cinque mezzi dell'Asia, la società pubblica per la raccolta dei rifiuti, sono fermi, gli autisti fumano e chiacchierano. Forse anche loro filosofeggiano sulle responsabilità.
A pochi metri un gruppo di uomini, donne e bambini, sono intenti a dar fuoco ad un cumulo di copertoni. Controllano le fiamme, respirano i miasmi di quel piccolo rogo che serve ad estrarre ferro e rame dai vecchi tubi elettrici e dai copertoni consunti. A pochi metri dagli operatori ecologici. Che guardano ma non vedono. Chi sa ti racconta che quelli al lavoro sono i rom della baraccopoli di Scampia, prendono 20 euro per quintale di materiale bruciato. Una filiera: qualcuno scarica camion di rifiuti pericolosi, le famiglie di rom si mettono al lavoro, guadagnano un po' di soldi e di prezioso rame da rivendere al mercato nero. Stessa scena a Giugliano, nell'area industriale, all'altezza dei campi rom 2 e 5 (così c'è scritto davanti alle baracche), dove al lavoro sono soprattutto bambini piccoli. Fiamme, roghi, fumi e veleni: termodistruttori a cielo aperto.
Queste terre che si allungano fino ai comuni del Casertano, ti raccontano le ferite che il fallimento della gestione dei rifiuti ha provocato in Campania. Uno scempio che non è solo ambientale, ma sociale, civile. In questa enorme pianura vedi il vecchio e il nuovo, quello che era e che è stato ucciso per sempre dalla monnezza. I campi di verdissimi spinaci e di broccoli della zona (i friarielli) a ridosso di discariche abusive. Vecchie masserie di tufo dove per secoli sono cresciuti il lavoro e la cultura contadina, ora sono distrutte, diventate depositi di rifiuti, scassi per le auto da demolire. Un amico di Legambiente ci ha detto di andare alla Strada 3 Ponti. «Stanotte hanno fatto uno scarico abusivo». Ci andiamo ed è vero. La strada è piena di rifiuti. Mondezza in genere, ma sotto i cumuli qualcuno ha scaricato quintali di residui di lavorazione di una fonderia. E poi ci sono copertoni, bidoni dalla scritta illeggibile, plastiche. Un cumulo è stato già preparato per il rogo di questa notte: sopra ci sono frasche secche, basta un po' di benzina e il gioco è fatto.
A pochi metri da questa discarica a cielo aperto campi coltivati. Sono alberi di pesche piccoli, con i rami aperti al cielo come le stecche di un ombrello capovolto, così il frutto prende il sole da tutte le parti e matura bene. Più in là c'è una piccola foresta di alberi piantati alla stessa distanza uno dall'altro e avvinti da un reticolo di piccoli rami, serve a coltivare la vite «maritata», una specialità unica, l'uva che si ricava dà un vino asprigno da favola. È una bella masseria. Sui campi c'è un contadino al lavoro. «Coltivate broccoli, frutta e viti, ma non avete paura della diossina?». «Dottò, ma quando mai qua la roba è buona. Certo, più avanti le piante sono seccate, ma noi qui dobbiamo vivere». Sì, più avanti, dove tra la massa di rifiuti notiamo vecchi tetti di eternit (fuorilegge da anni per colpa dell'amianto) bruciati insieme a batterie di auto arrugginite, televisori sfasciati e schermi di computer, le piante sono bruciate. Nere, i rami rinsecchiti, il terreno arido. Qui si scarica abusivamente ogni notte, ma nessuno vede, nessuno controlla.
Altro giro, altro scempio. Arriviamo all'altezza di una delle discariche dove è interrato il «percolato», in pratica il liquido che fuoriesce dalle cosiddette ecoballe, ci sono i tubi di raccolta, ma uno scarica i liquami dentro una cunetta sulla strada. Già, le ecoballe, la tragedia nella tragedia. Dovevano essere la soluzione del problema ma lo hanno aggravato, reso infinito e forse eterno.
A Taverna del Re c'è una troupe della tv per uno speciale, la vigilanza è impegnata e non controlla tutti i varchi. Una distrazione che consente al cronista di entrare fino a sotto le montagne formate dall'accatastamento delle balle. I teloni neri in alcuni punti sono spaccati e si vedono questi enormi pacchi di monnezza, dentro c'è di tutto. Ferro e plastica, secco e umido. La puzza insopportabile che ci prende il naso e la gola ci dice che fermentano.
Non osiamo immaginare cosa accadrà ad agosto quando il nero e la plastica dei teloni faranno aumentare la temperatura là sotto. In molti punti di questa enorme distesa non ci sono misure antincendio adeguate, non vediamo cumuli di sabbia da utilizzare per eventuali spegnimenti, né tantissime bocche per le prese dell'acqua. Attorno molti terreni sono abbandonati, c'è chi ha venduto alla Fibe e ai padroni del territorio che hanno comprato a poco prezzo e rivenduto a peso d'oro ed è andato via. E c'è chi resiste. Un solo contadino, una sola masseria ormai cadente. Dicono che il proprietario non ha voluto vendere i suoi pochi «moggi» di terra. Lo hanno circondato di filo spinato e montagne di monnezza.