Ucciso dai Casalesi il «signore dei rifiuti»
Casal di Principe. Sullo sfondo, la saracinesca abbassata del Roxy bar. In primo piano, il lenzuolo bianco dal quale spuntano le scarpe di quello che fu il potentissimo signore dei rifiuti e che da un anno, da poco meno di un anno, era un uomo solo. Michele Orsi, imprenditore borderline, metà vittima e metà fiancheggiatore, metà imputato e metà accusatore, è morto sotto il porticato della palazzina gialla di corso Dante, sulla soglia del bar dove non è mai entrato. Ammazzato a colpi di pistola, vittima eccellente della guerra di camorra che si sta guerreggiando in questi giorni. Guerra, poi. Meglio sarebbe chiamarla rappresaglia, la vendetta chirurgica del clan Bidognetti contro chiunque abbia creato problemi alla famiglia con denunce e pentimenti, e anche con qualche flessione, pur debole e poco dannosa, nella linea della contiguità. Michele Orsi aveva fatto proprio questo, aveva tradito e fatto i nomi di coloro ai quali aveva versato le tangenti o che aveva favorito con assunzioni, prebende, regalie. Era il luglio del 2007 ed era detenuto, accusato pure lui di aver contribuito a far ingrassare i Casalesi che controllavano il consorzio Ce4 e lo smaltimento dei rifiuti a Mondragone e Castelvolturno, il territorio di Bidognetti. Lo hanno ammazzato quando Casal di Principe stava iniziando il pranzo della domenica. Anche la tavola di casa Orsi, in via Catullo, era apparecchiata. Michele, 47 anni, era uscito a metà mattinata, aveva comprato i giornali ed era rientrato poco dopo. Ma quando tutto era pronto per mangiare, intorno alle 13,30, è uscito di nuovo: i più piccoli dei suoi quattro figli, Luca e Florinda, 12 e 4 anni, volevano la Coca Cola e in frigorifero non ce n’era più. Quello che era stato il direttore generale di Ecoquattro non ha saputo dire no ai due bambini e ha rinunciato a quelle piccole precauzioni che prendeva da quando aveva capito che l’aria si era fatta pesante e che a Casale aveva troppi nemici. È uscito, ha percorso i trenta metri che separano la casa di via Catullo - la stessa casa contro la quale, tre mesi fa, fu sparata una raffica di pallettoni - dal bar Roxy. I killer lo aspettavano là, nello spiazzale di terra battuta, proprio di fronte alla palazzina. Pare che fossero lì dalle dieci del mattino, a bordo di una Smart. Tre persone, secondo la prima ricostruzione fatta dagli investigatori, tutte armate di pistole calibro 7x21. Venti i colpi esplosi, cinque quelli andati a segno: alla testa e al torace, tutti mortali. Alle 13,40 era tutto finito. Gli assassini erano scappati per via Bosco, il titolare del bar Roxy aveva abbassato la serranda, chi aveva assistito all’omicidio era andato via. È stato Osvaldo, il secondo figlio di Michele Orsi, il primo ad accorgersi di qualcosa di strano, dal balcone di casa aveva visto il corpo del padre steso a terra. E ha chiamato la cugina, la figlia di Sergio Orsi - pure lui manager di Ecoquattro travolto dall’inchiesta giudiziaria di un anno fa - che abita nello stabile accanto, sempre in via Catullo. «È successo qualcosa, papà sta a terra e non si muove.....». Poi il grido straziante dei ragazzi e della moglie, la telefonata ai carabinieri, il pianto lungo e lancinante che ha fatto da sottofondo al sopralluogo degli investigatori e all’arrivo del carro funebre. Un grido che si è fatto più acuto quando il corpo di Orsi è stato scoperto e, sulla maglia gialla, sono apparsi i fori macchiati di rosso, cinque marchi della vendetta di camorra. Aveva paura, Michele Orsi. Aveva paura da quando era stato arrestato la prima volta, tre anni fa, e gli era stato chiesto conto delle sue frequentazioni: quelle alte, con i politici, con i funzionari della prefettura di Caserta, con i manager del commissariato straordinario per i rifiuti; e quelle sporche, con la camorra di Mondragone e di Casal di Principe. Allora, era il 2005, se l’era cavata con un breve periodo di detenzione domiciliare e qualche ammissione: «Non sono colluso, ho solo pagato tangenti», aveva detto. Poi, il 3 aprile dello scorso anno, il carcere, assieme al fratello Sergio, così come avevano chiesto i pm antimafia Raffaele Cantone e Alessandro Milita. Due mesi dopo le confessioni e le accuse, solo parzialmente contenute negli atti del secondo filone della stessa inchiesta sulla gestione di Ce4-Ecoquattro, quello costato l’avviso di garanzia al deputato di An Mario Landolfi. Il 17 giugno avrebbe dovuto testimoniare dinanzi al gip Enrico Campoli, nell’udienza preliminare. A marzo, quando i Casalesi avevano già aperto le ostilità e avviato la campagna di primavera, gli spari contro il portone di casa. Due settimane fa un’altra avvisaglia. Aveva chiesto aiuto e protezione, o almeno la possibilità di ottenere la restituzione di alcuni beni sequestrati per poter lasciare Casal di Principe. Aveva ottenuto, una decina di giorni fa, la vigilanza saltuaria della sua abitazione. «L’aria non è buona, da Casale me ne devo andare, Ma dove? E come?», aveva confidato ai familiari appena due giorni fa, dopo il ferimento della nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Bidognetti. Sapeva di avere la morte sul collo. E aveva ragione.