«Le cosche sono diventate imprese l’emergenza moltiplica i loro affari»
«Il problema dei rifiuti in Campania è sempre stato affrontato con il sistema dell'emergenza che facilita e alimenta le violazioni della norma»: il procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia, Federico Cafiero de Raho, spiega perché dopo diciassette anni i clan riescono ancora a dominare il business della spazzatura.
Il sistema emergenziale ha quindi aiutato la camorra? «Certo. I commissariamenti hanno cercato di risolvere le crisi superando anche i limiti delle leggi. Ma questo non ha aiutato a trovare una soluzione stabile come è avvenuto in altri comuni, in altre province, in altre regioni dove con la differenziata si è cercato di recuperare i rifiuti trasformando la parte umida in concime e quella secca in energia. In questi casi il rifiuto entra in un ciclo economico virtuoso. Da noi, invece, spesso ha alimentato solo la malavita».
Come? «Per capirlo bisogna analizzare la situazione in maniera più complessiva. In Campania, in Calabria e in Sicilia ci sono organizzazioni criminali che non sono bande che si dedicano al crimine, ma organizzazioni che hanno raggiunto grandi capacità manageriali. Il loro scopo è un arricchimento che spesso nasce dal reinvestimento nell'economia legale dei proventi dell'economia illegale. Perciò l'impresa camorrista si giova di una situazione di emergenza dove non ci sono regole e dove si non ci sono controlli».
E le imprese sane? «Come diceva il governatore Banca d'italia Draghi in Campania in Calabria in Sicilia c'è un tale aggravio di costi per l'incidenza della malavita che si impedisce alle aziende sane di collaborare e questo finisce per restringere il mercato. Così vari settori dell'economia restano appannaggio esclusivo di aziende che operano sul territorio e tra queste spesso hanno la meglio quelle malavitose. Se spostiamo il ragionamento sul settore dei rifiuti ci accorgiamo che un funzionamento così caotico è funzionale alla crescita di un'economia inquinata. Ora saranno le indagini ancora in corso a dirci cosa è realmente accaduto».
Che fare per garantire un appalto pulito? «Io credo che sia utile aprire il mercato, creare concorrenza anche con le imprese straniere. Una gara a livello internazionale finisce con l'escludere quelli che si sono fatti strada grazie alla criminalità».
Cinquanta imprese colpite da interdittiva antimafia, ma i risultati non si vedono, perché? «Occorrerebbe una maggiore trasmigrazione di informazioni tra procura e prefettura. A volte la Dda non è informata delle procedure avviate dalla prefettura, anche se devo dire che adesso si è aperto un percorso più continuativo. Ma la strada amministrativa è diversa da quella giudiziaria, il che non sempre è logico. Ci sono gruppi ispettivi agli ordini del prefetto. Io credo che vadano moltiplicati i controlli nei cantieri. È utile individuare le persone e i mezzi realmente presenti. Fortunatamente la legge del 2010 consente accessi in ogni caso di appalto e subappalto».
Abbiamo molte indagini che coinvolgono il settore rifiuti, non sarebbe utile trattarle unitariamente? «È quello che facciamo. Noi agiamo sempre sulla base di notizie di reato. Se nel corso delle indagini ci sono elementi che collegano le diverse inchieste le riuniamo e comunque il procuratore Lepore, che segue personalmente il settore, tiene riunioni periodiche tra tutti i magistrati che si occupano del tema. Utilizziamo il cosiddetto sistema Falcone che analizzava le cosche in maniera unitaria».
Gli appalti sono gestiti dagli amministratori, ma pur essendoci moltissime inchieste sui rifiuti, i politici ne restano quasi sempre fuori. Perché? «Per dimostrare il concorso di un politico è necessario che ci sia prova della responsabilità penale che si fonda su elementi concreti e inconfutabili ed è diversa da quella politica: nel primo caso bisogna dimostrare la partecipazione a un reato, nel secondo giudicare un fallimento. Ma questo non tocca ai magistrati. Laddove si è dimostrata, invece, l'esistenza di reati abbiamo chiesto il giudizio anche per i politici».