La solidarietà svelata dai cumuli

28 giugno 2011 - Massimiliano Virgilio
Fonte: Il Mattino

Un fronte nero maleodorante entra dalla finestra nell'ennesima notte dei rifiuti. I cumuli non bruciano più. L'aria è secca, la gola avvampa. Penso agli amici che negli ultimi mesi hanno avuto dei figli e hanno scelto di restare a Napoli. Sono dei cretini o degli eroi? Intanto in bocca ho un vago sapore di plastica. La plastica. Se c'è una cosa che grida vendetta, a osservare tra i rifiuti, è la plastica gettata via assieme al resto. Molti napoletani vivono una vita di plastica, letteralmente. Bottiglie, bicchieri, posate, piatti, detersivi, buste, packaging di ogni tipo. Tutta questa roba indifferenziata e indifferente non si tiene. Come dirlo ai leghisti che sono obbligati a non lasciarci soli? Con quale faccia noi napoletani, anche se riteniamo di avere le più solide ragioni del mondo, chiediamo ancora aiuto se ci comportiamo così? Come molti altri concittadini la settimana scorsa ho letto la delibera sui rifiuti. Poche altre esperienze della vita, tranne i dischi di Bob Dylan e un giro in Harley, mi sono sembrate più rock. Dopodiché, consapevole della tragica situazione, sono sceso di casa alquanto speranzoso. C'è la delibera, i napoletani si adegueranno, pensavo camminando. Eppure, dopo una lunga passeggiata, mi è venuta una nervatura grossa così a guardare tra i rifiuti accatastati in via Filangieri, dove all'ordinario cumulo di sacchetti si era aggiunta una scaffalatura di plastica con annessi i vuoti delle tinture di qualche geniale coiffeur a Napoli Bene. Era proprio necessario disfarsene in quei modi e in questi giorni? E la delibera? Per caso i parrucchieri non leggono le delibere? Esattamente di segno opposto, invece, è stata l'esperienza che mi è occorsa l'altra notte al Cavone.
Cercavo di sfuggire a un blocco stradale che impediva il passaggio contemporaneamente da via Salvator Rosa, il Corso Vittorio Emanuele e, appunto, il Cavone. Nel cuore del quale giaceva una montagna di rifiuti imparagonabile a qualsiasi altra ammirata negli ultimi anni. Alta due metri e larga tutta la strada, da balcone a balcone. Una montagna innaturale, la cui perfezione mi ha fatto pensare alla possibilità che ci fosse lo zampino di qualche ignoto artista. Quasi quasi meriterebbe di stare al Madre, ho pensato. Inevitabile allora, un po' per contrappasso, un po' per nostalgia, tornare con la mente alla bellissima Montagna di Sale di Mimmo Paladino al Plebiscito. Invece no. A quanto pare è stata tutta opera dei rifiuti napoletani. Ma quel punto, al Cavone, ogni via era bloccata. Insieme agli altri automobilisti che si accatastavano ai piedi della montagna abbiamo iniziato a temere di essere finiti in una di quelle fiction americane a sfondo crepuscolare in cui si finisce per mangiarsi a vicenda. Invece per fortuna sono arrivati i cingalesi. Cingalesi e napoletani assieme. Dai bassi e dai palazzi, dagli abissi di questa città, sono spuntati e hanno tirato fuori di lì la carovana di sconosciuti. Uno alla volta, grazie al mutuo soccorso tra cittadini, siamo usciti dal burrone e tornati in superficie, salutandoci calorosamente e chi addirittura scambiandosi il numero di telefono. Siccome siamo napoletani, non abbiamo potuto fare a meno di percorrere le pendici dell'abisso motteggiando tra noi. I più fortunati andavano verso il Vomero, dove le strade erano libere. La stessa notte, tornato a casa, mi tocca leggere per lavoro un libro su Sergio Piro, il grande psichiatra amico di Basaglia. Poche pagine e Piro, rispondendo a una domanda dell'intervistatrice su quando avesse iniziato a considerare Napoli la sua vera casa dopo il trasferimento dalla Sardegna, dice che era successo dopo il terremoto, quando la città feroce si trasformò improvvisamente in una città ordinata, dove le persone si aiutavano tra loro in silenzio. Ecco. Forse è questo il tragico destino napoletano che andrebbe invertito. Dare il meglio di noi solo nella tragedia. Quando basterebbe dare il meglio di noi nella normalità.

Powered by PhPeace 2.6.4