Il cimitero dei cannoni abbandonati al porto la storia finisce in discarica
In fondo, quasi a un chilometro e mezzo nelle acque del golfo di Napoli, ad accogliere navi e aliscafi che arrivano al Beverello e all'Angioino, c'è un san Gennaro bianco e benedicente, sembra fatto di sale. Dall'altra parte c'è la sagoma scura del suo eterno nemico, il Vesuvio. E sotto la statua qualcuno, da tempo, assieme ai fiori di plastica, incrostati di mare, ha poggiato una porosa pietra vulcanica, adagiata su un vassoio di plastica. Un ex voto che esorcizza acqua e fuoco. Ci sta bene, perché il Molo San Vincenzo è un giavellotto di pietra lanciato dal cuore di Partenope verso l'azzurro, tra mare e cielo rosso al tramonto. Un luogo misterioso per eccellenza, frequentato solo da chi ci lavora. Militari e marinai, guardie costiere e operai addetti al rimessaggio di navi e aliscafi, qualche pescatore che con la canna prova a far abboccare salpe e cefali, pochi accaniti e fortunati corridori che si godono il panorama più seducente della città: una Tavola Strozzi contemporanea che, lontani dal rumore, sembra riportare l'animo ai fasti aragonesi del 1472.
Ma, come sempre accade in una terra di demoni più che di angeli, basta abbassare gli occhi da cotanto cielo è si è trafitti dallo sfascio, dallo spreco. È un pezzo della città proibita e invisibile. E a Napoli tutto ciò che è proibito, invisibile e soprattutto pubblico diventa rapidamente degrado. E ruggine che non dorme mai. Un palcoscenico degno dei romanzi di Alvaro Mutis, il colombiano che con Maqroll il Gabbiere ha dato forma al mondo in disarmo delle rotte senza tempo. Ecco, qui sarebbe di casa, tra i detriti portati dall'uomo e quelli rivomitati fuori dalla rabbia delle divinità marine. Il Molo è un'area protetta, vietata ai più, ma è anche terra di nessuno, più che di Nettuno. Un retrobottega, come tanti altri a Napoli, dove si possono depositare una trentina di fusti storici di cannone, lasciati in preda alle intemperie. Residui di chissà quale guerra, borbonica o risorgimentale, mondiale o burocratica. Nel tunnel dove si rincorrono piccoli archi, come ingressi di case di puffi, marciscono masse di cime, si accumulano alla rinfusa bottiglie su bottiglie di plastica incrostate dalla vita degli abissi, tappeti di alghe scivolose, infradito spaiati, pneumatici, bidoni arrugginiti di olio per imbarcazioni. E si intuisce dai rapidi fruscii la presenza di ratti che qui fanno casa e bottega. Qua e là una barca o un naviglio in secca. Qualcuno serve da appendino per t-shirt e accappatoi. Nelle crepe dei muri di pietra nera hanno cementato delle scarpe da ginnastica blu. Potrebbe essere un'installazione concettuale non ancora censita, un omaggio a «Blue Suede Shoes» di Elvis Presley, oppure ciò che si vede di un cadavere. È facile, procedendo per questi lidi, passare dall'arte contemporanea alla cronaca nera. Al centro del cammino troneggia, come un gigantesco fungo grigio, ciò che resta dell'eliporto costruito negli anni Ottanta. Finanziato e rifinanziato a colpi di centinaia di milioni di lire, è ora un cadavere eccellente che può servire solo per ripararsi dalla pioggia. Un monumento allo spreco, uno dei tanti, nella città deturpata e ferita a morte. Il futuro del molo è affidato all'Autorità Portuale. Si progetta e si fantastica. Soldi ce ne sono. Intanto, però, sotto uno dei portici, che, come nello scantinato delle promesse e dei sogni, punteggiano la striscia di pietra, giace, buttato via come un limone spremuto, il pannello dell'ultimo piano esecutivo per il recupero e il risanamento. Un cartello triste, solitario e senza finale, che, con la fredda eloquenza dei nomi e delle date, ricorda un contratto fatto nel 2003, una consegna dei lavori prevista per il 2004 e un'ultimazione promessa per il 19 marzo 2006 (domani farebbero cinque anni). Auguri, buon non-compleanno, direbbe il cappellaio matto di Lewis Carroll. Aspetteremo, vedremo. Intanto, la passeggiata per contemplare uno skyline inedito di Napoli, in una gita al faro domestico, lungo magazzini stracolmi di peroglie, uffici sbarrati e in disuso, una casetta bianca ridipinta di recente, con il pavimento di basalto e completamente vuota, comprende prospettive bifronti: gli operai a lavoro a rimettere in sesto aliscafi e catamarani e il deposito di carcasse meccaniche e biologiche. Su un bacino di carenaggio giace un ponte levatoio roso dal tempo e dall'instancabile ruggine. Accanto frammenti di gusci di cozze ammucchiate e scricchiolanti sotto le scarpe. Poco più in là sono cresciuti due abbondanti fichi d'India che fanno molto Mediterraneo. E dappertutto cumuli di macerie, miste di terreno, sassi e metalli. Stesi a terra ci sono pure dei giganteschi cavitelli con boe sottomarine che somigliano a portentose corolle degne del pianeta Pandora di «Avatar». Un molo è sempre un'esperienza cinematografica. Quaggiù, fino alla metà del Duecento, c'era solo un isolotto sul quale insisteva una piccola chiesa donata dal monastero di San Vincenzo del Volturno, da cui il nome del molo. Re Carlo I d'Angiò vi fece innalzare una torre. Ma solo nel 1596 lo scoglio fu attaccato alla terraferma, per volere del vicerè, il conte di Olivares. Tra maremoti (il più violento nel 1837) e restauri borbonici e, poi, del Ventennio fascista, è solo cresciuto in lunghezza, come se volesse scapparsene da Napoli.