Da Licola a Cuma le spiagge inondate di veleni

Sui fondali non sabbia ma melma. E nelle foci si trova di tutto: griglie otturate da rottami d'auto
29 gennaio 2011 - Pietro Treccagnoli
Fonte: Il Mattino

I depuratori campani LICOLA. Il mare d’inferno, magari è un concetto che il pensiero non considera, ma esiste e i napoletani lo conoscono bene. È pochi chilometri a Nord. L’inverno sembra ridurre l’inferno, ne attenua la puzza che chi abita qui ha imparato a combattere a zaffate di antistaminici, ché l’allergia perenne è il regalo più insidioso di Sua Maestà la Monnezza, padrona di terre e spiagge che, altrove, sarebbero state un dono di dio. Licola, ma anche Varcaturo, Patria e lassù fino ad Ischitella e ai Regi Lagni, è diventato il buco del culo del mare. Lo sversatoio di percolato e di tutto quanto inquina, insozza, appesta. Eppure, l’orizzonte è largo, la spiaggia resta dorata, manda riflessi, anche sotto un cielo coperto di gennaio. Se metti alle spalle l’edilizia beduina che da decenni ha devastato paesaggio e coscienze, se guardi l’orizzonte, ti senti allargare il cuore. A sinistra c’è l’acropoli di Cuma, Monte di Procida, Ischia e Procida come gemelle diverse e a destra, oltre monte Petrino, a Mondragone, il profilo sfumato dei monti Aurunci, che sono già Lazio. Insomma il Tirreno, come lo sognerebbe un turista. D’estate, chi non può permettersi di meglio, ma anche chi ha qualche pomeriggio libero, si gode un Varca tour. Tangenziale e via da Napoli. Asse Mediano e via dall’amara provincia giuglianese e aversana. Sole e tedio a sdraio. Ma il mare no. Resta un abbaglio che attira per il suo sciabordìo, quasi il sussurro di una sirena. Per rinfrescarsi ci sono le piscine e le docce che molti gestori dei lidi hanno dovuto far costruire come una sineddoche, la parte per il tutto. Che beffa, però, con tanto ben di dio a pochi passi. Lo scenario della tragedia è questo. Il percolato è solo il condimento. Il piatto forte qui è la spazzatura generalizzata che durante la stagione dei bagni viene tenuta a bada e lasciata fiorire nelle piccole spiagge libere. D’inverno, invece, il mare restituisce tutto e l’arenile attorno alla foce di Cuma non nasconde le indecenze, espone impudico le sue vergogne. Da questa gola profonda, da questa bocca cariata, viene vomitato un liquido immondo che trasporta pezzi di legno e altri solidi irriconoscibili. Per puzzare puzza e pure assai. Ma la curiosità e l’appetito dei gabbiani ne sono attizzati. Si avvicinano a piccoli passi, senza paura. Non trovano niente e tornano in acqua, a galleggiare. Tutt’attorno bottiglie di vetro e di plastica, flaconi di detersivi e ammorbidenti, una poltrona sfasciata, lattine, scarpe. Il fondale è basso. Ma sotto non c’è sabbia. È melma, che uccide come una divinità mefitica. «La foce di Cuma e quella dei Regi Lagni» spiega Gaetano Montefusco, presidente dell’associazione Avvocati del mare «sono le due zone critiche del litorale. Altrove, per ampi tratti, è di nuovo consentita la balneazione, da Castelvolturno a Varcaturo». Se fossero realizzate le condotte, aggiunge, si potrebbe risanare del tutto la ferita. È qualcosa più concreto di un sogno, anche se troppi hanno smesso di sperarci e le istituzioni di crederci e lavorarci. Annamaria Lubrano, presidente dell’associazione ambientalista Costa dei sogni, è anche la proprietaria del lido Le Dune, proprio accanto alla foce del percolato. Due estati fa, quando venne giù a ondate, i bagnanti, il tempo di mettere nel borsone pareo e crema protettiva, scapparono via. Scene da day after. «Nell’Alveo confluiscono fogne, scarichi industriali e abusivi» spiega. «Lungo il percorso e alla foce arriva di tutto. Anche i sacchetti della spazzatura che buttano dai ponti, pneumatici e persino una batteria di fuochi d’artificio». Non è solo una questione di manutenzione ordinaria. Quella sì che è un miraggio. È rassegnazione all’illegalità, alla camorra, e soprattutto al brutto, al degrado, alla zella, alla zozzimma. Una volta fu trovata una griglia di scolo ostruita dallo sportello di un’auto. «Tutte le persone che oggi sono incriminate» si sfoga la Lubrano «sono state continuamente interpellate da chi vive e lavora qui, con grandi sacrifici. E da tutti abbiamo avuto risposte evasive. Arrivai ad incatenarmi davanti alla Regione. Vennero a pulire le griglie, una sola volta». Tutti sembrano affidarsi al dio Nettuno, alla grande potenza del mare aperto che pulisce, rigenera e non fa appantanare l’acqua. Ma dagli anni Ottanta, quando è cominciata la distruzione sistematica di questo paradiso perduto, il veleno ingoiato dalla divinità liquida è stato sempre di più. E di fronte al percolato non c’è divinità che tenga. È l’inferno del mare.

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