Discarica Posillipo spunta l'immigrato che sposta i rifiuti
Cartoline dalla città mistificata. La vita ai tempi della monnezza a Napoli mostra i mille volti della disperazione. Da Posillipo all’Anticaglia, dalla collina dell’armonia perduta al più maltrattato dei Decumani, la città prova ad arrangiarsi. Camere con vista sui rifiuti. Finestre sigillate per il fiéto, tanto grandina e il mare che bagna Napoli è un desiderio inappagabile. Ieri, la roulette russa della sacchetta è toccata al quartiere più snob della città. Giù da via Petrarca, attraverso il Parco delle Rondini, si vedono solo piccioni assatanati becchettare e svolazzare sui cumuli gonfiati dall’acqua, giù fino all’ingresso della discesa delle Rocce Verdi. «Fotografate, fotografate» gridano da una macchina. «Tanto la pioggia mantiene la monnezza in fresco». Ma mica è finita. Una volta a Posillipo c’era il pino a svettare ora crescono mini-discariche, perché i cassonetti non bastono più, anzi neanche più si distinguono sotto la colata fetida. Così qualche commerciante s’è organizzato non per smaltire la monnezza, ma semplicemente per eliminare la puzza. Come? Spostando i sacchetti, anzi facendoli spostare. È il compito di Fernando, 35 anni, originario dello Sri Lanka, da un anno e mezzo in Italia. Mascherina, guanti e carrello, tira su da terra buste che contengono di tutto. E poi? «Le porto più su, dove non si vedono e dove non ci sono negozi». Fernando potrebbe essere un personaggio marottiano del Terzo Millennio. Siamo sul belvedere aperto al golfo grigio, all’altezza di piazza San Luigi. C’è un negozio di abbigliamento chiuso, una macelleria, la famosa gelateria Bilancione. «Non ho trovato un lavoro migliore» spiega Fernando. «Mi danno 25 euro al giorno e faccio avanti e indietro, anche sotto la pioggia». Dove finisce la monnezza è un suo segreto, un mistero doloroso. «Sono arrivato in Italia pieno di sogni» continua. «Non ho sempre fatto lo spazzino, però. Fino a qualche mese fa facevo lavoretti saltuari meno sporchi». Be’, se andrà avanti così, avrà trovato un’occupazione a tempo indeterminato. Napoli, ieri, era una scacchiera di cumuli, montagne come pedine, ma nessuno va a dama. E a perdere è tutta la città. I Quartieri Spagnoli, dopo il disastro dei giorni passati, erano puliti. Cassonetti liberati. Ma quanto tempo resisteranno? Da Salvator Rosa scendeva giù al Museo una lava di acqua mista a spazzatura sciolta. Identica scena a via Giacinto Gigante. Come nel «Giudizio Universale», il film di Vittorio de Sica in cui tutta Napoli risaliva al Vomero per sfuggire al diluvio, solo che allora non c’erano sacchetti misti a fango. A piazza Cavour, proprio davanti a una sezione comunale e a una sede dell’Asìa, con tanto di piccoli compattatori parcheggiati, c’è un cumulo di spazzatura. La ammucchiano là apposta i napoletani nella speranza che la portino via prima o è una trincea di autodifesa degli spazzini? Di sicuro, addentrandosi nel ventre di Napoli, attraverso Porta San Gennaro, fatto qualche metro, a via Maria Longo spunta un cartello della disperazione. Sulla saracinesca abbassata di un solarium («Progetto bellezza») c’è un foglio bianco. C’è scritto: «Chiediamo scusa ai nostri clienti, ma questa attività resterà chiusa: causa monnezza». Una resa che rischia di moltiplicarsi. Il solarium è accanto a una chiesetta sbarrata da rifiuti: una carcassa di scooter, cuscini sventrati di divani, vetri rotti, barattoli vuoti di pelati, bottiglie di plastica, vecchi cd e ombrelli disarticolati. Anna lavora nel centro estetico. «Sono venuta ad aprire per pulire» racconta. «Per vedere se non entrano animali, perché qui attorno c’è di tutto. Questo cumulo che vedete sta qui da sabato. E sono giorni che nel centro non entra più nessuno. La sentite la puzza? Qua si vedono solo topi e cani randagi che mangiano come se fossero a casa loro. E poi vengono i rom. Aprono i sacchetti, scavano, sparpagliano tutto attorno attorno in cerca di qualcosa che possono riciclare. Cosa possiamo resistere?». Quando riaprirete? «E che ne so? Sono giorni che telefoniamo all’Asìa ma non abbiamo risposta. Allora, basta». Sul muro c’è una lapide di Sant’Antonio e più su un affresco, ormai illegibile, di Maria Longo, la fondatrice degli Incurabili (che sono poco più su) di ritorno dal viaggio a Loreto in cui guarì da una paralisi. In questi vicoli si aspettano miracoli meno clamorosi, ma più pubblici. Già sentire il rumore meccanico dello svuotamento dei cassonetti sarebbe un prodigio. E per di più umano.