«Qui siamo a Kabul non in Italia e allora bruciamo il tricolore»
Qyu ha perso perchè qui arrivano veleni anche dal nord
Terzigno. «Per questa gente sono una specie di eroe, solo perché ho bruciato una bandiera di stoffa». Un po’ guascone, dietro quegli occhiali da montatura nera stile anni ’60, un po’ finto disincantato, con i suoi riccioli chiari a fare da contorno al volto scavato. Eccolo, Salvatore Alasci, il trentenne di Boscotrecase che per due volte ha bruciato pubblicamente il tricolore. Prima, giovedì, in piazza Pace a Boscotrecase, poi il giorno dopo nella rotonda dei presidi anti-discarica in via Panoramica a Terzigno. È a suo agio, come a casa, tra i manifestanti che presidiano la rotonda. Lo salutano in tanti. «Mi sento italiano, orgoglioso delle mie radici boschesi - spiega lui - Ma vi sembra che qui siamo in Italia? Guarda quegli agenti in tuta da sommossa a sbarrare le strada che va verso la discarica, vedi tutt’attorno queste immagini da guerra?... I residenti per tornare a casa devono mostrare il documento. No, qui è Kabul, altro che Italia...». Scuole finite alla terza media, un lavoro da installatore, una lunga esperienza tra Modena e la Polonia durata dieci anni. Salvatore parla con passione, ma senza scomporsi. E non appare affatto uno sprovveduto, né un provinciale disinformato finito qui per caso. Racconta: «Sono tornato al mio paese a marzo, dopo aver lavorato da precario a Modena. Ve la dico tutta: la ditta era modenese e i proprietari di Napoli. Anzi di Secondigliano, voi mi capite... Ora mi sono scocciato della precarietà. Me ne sono tornato qui a casa mia e trovo ’sta schifezza». Vive con la madre a un chilometro dalla discarica, ha due fratelli e due sorelle, tre nipoti. Su quel cognome, Alasci, rivela che ha origini spagnole e spiega che la sua famiglia discende da hidalgo iberici arrivati a Napoli durante il vicereame. La politica? «Sono tutti uguali, qui lo Stato ha perso, è inesistente. Pensa di risolvere il problema facendo buchi e mandando qui veleni, anche dal nord. Sì, ve lo dice uno che al nord ci ha lavorato. Qui vengono veleni di quelle fabbriche». Ne ha anche per la sua gente: «Sbagliano se pensano che tutto è risolto con una discarica magari ad Avellino. Il problema si riproporrà lì, le soluzioni sono altre, non i buchi da riempire con i rifiuti». Racconta il suo gesto: «Le bandiere me le hanno date amici che le avevano in casa. Qui alla rotonda, dove vengo dall’inizio della protesta, l’ho stesa sulla strada e l’hanno calpestata gli agenti. Ho chiamato un’ispettrice, se ne è fregata. Allora ho dato fuoco. Non c’è Italia qui, basterebbe fare come in altre zone con aziende di compostaggio, differenziata». Il dialetto è la sua lingua, ma sa farsi capire molto bene. Salvatore dice che, nei fine settimana, andava anche ai presidi di Pianura e Chiaiano. E fa dei distinguo: «Qui li conosco tutti, camorra e camorristi non ce ne sono. Lì, in quei quartieri napoletani, era diverso. I camorristi c’erano, eccome. E si facevano sentire». Giura di non avere contatti con i centri sociali, i suoi amici sono quelli di sempre in paese. Si schernisce: «Mio fratello, sì che ha studiato. Io no e la politica non mi piace. Forse un po’ di simpatia me la fa il Movimento cinque stelle. Protesto per i miei nipoti, perché non muoiano tra i veleni». E aggiunge paradosso al surreale di uno scenario simile ad un campo di battaglia: «Ti dico una cosa. A mia nipote di sei anni insegno a fare la differenziata, a scuola non lo fanno. E questa è Italia? Allora, sì, che brucio il tricolore per urlarlo».