Cani sciolti, antagonisti figli di papà ecco i professionisti della guerriglia

Sono napoletani dei rioni post sisma
Ventenni in contatto via cellulare sfrecciano su scooter con targa coperta
23 ottobre 2010 - Pietro Treccagnoli
Fonte: Il Mattino

Terzigno. Ci sono parole come pietre e pietre che diventano parole. I sassi e le bottiglie dell’Intifada vesuviana raccontano una rivolta di pancia. Qui le parole solo maleparole, figuriamoci quindi le pietre. Per i professionisti della guerriglia, che ogni notte danno l’assalto ai camion e alle scorte antisommossa, i sassi sono frammenti di discorso doloroso, dove la violenza è l’unico linguaggio che sanno parlare. Altrove è afasia. Chi sono, da dove vengono, dove vanno? Se chiedi in giro, nel mare magnum della gente perbene ti senti rispondere vagamente con un «cani sciolti, teste calde, gente che vive di espedienti». Ma a denti stretti, parlando in confidenza, si aprono. Certo non svelano che è il figlio del vicino di casa, che è quel ragazzo a pochi metri con la faccia un po’ abbioccata e le scarpe griffate. Ma ci vuole poco a capire. L’Intifada notturna è quasi tutta opera di ragazzi. Diciottenni-ventenni, ma gli daresti anche di meno. Si tengono in contatto con i telefonini, girano con gli scooter con la targa coperta, sanno dove nascondere pietre vulcaniche e bottiglie incendiarie. Il territorio è loro. Spuntano da un incrocio ed entrano in un sentiero, tra un vigneto e un rustico abusivo. Fanno gimkana tra i cumuli di monnezza, pieni tra l’altro di capsule di lacrimogeni, e barricate che innalzano e sfasciano a loro piacimento. Da qualche sera sono cominciate a comparire sciarpette del Napoli, accanto alle kefiah palestinesi. Simboli che significano poco, perché sotto la copertura azzurra qualcuno, per esempio, ha il giubbotto dell’Inter (un insulto per un vero ultrà). Sono napoletani, spiegano. Son quelli che vivono nei quartieri del dopoterremoto. Quasi a voler espellere il problema. Non è gente dei paesi, di Boscoreale, di Terzigno, anche se qui vivono da decenni e ci sono nati, insistono. Avrebbero case nei rioni di via Settetermini o di via Passanti. Sono napoletani della diaspora, inseguiti dalla monnezza prodotta dalla madrepatria. E sarebbe in atto una saldatura tra loro, la periferia popolare, e alcuni gruppi più organizzati dei Comitati antagonisti, figli di famiglie bene che giocano a fare gli apprendisti stregoni o i rivoluzionari del sabato sera. Le loro armi non sono tutte autoprodotte. I fuochi d’artificio, per esempio, che vengono sparati di notte un po’ a sfottò, un po’ per innervosire, qualcosa (anche se non tanto) costeranno. E qualche euro, più di uno spiccolo, da qualche parte deve pure uscire. Di giorno si vedono poco in giro, racconta chi alla rotonda Panoramica (che ormai ha sostituito la piazza e i bar) ci passa le giornate intere, a presidiare e a passare il tempo, a godersi lo spettacolo in diretta, per poi rivederlo in tv in differita. I guerriglieri arriverebbero alla spicciolata, come se annusassero l’aria di scontro più che la puzza che al tramonto cala giù dalla schiena incombente del vulcano, d’a muntagna fredda. Scivolano tra l’erba marcia e i rovi del terreno incolto dietro i gazebo e escono attrezzati, bardati e bendati. Ma conoscono a menadito tutti i nascondigli più impenetrabili, tra vicoli e cortili. La polizia dà l’impressione di conoscerli bene. Troppe volte i poliziotti hanno fatto a botte con loro. A giudicare da come gli prendono le misure stanno aspettando che il pentolone arrivi a giusta ebollizione per calare la pasta e gli ultimi manganelli.

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