Trincea Terzigno, non si passa rabbia, scontri e devastazione
Terzigno. Le lacrime delle mamme vulcaniche hanno sostituito il Lacryma Christi, perché l'uva qui non serve più raccoglierla: nessuno più la comprerà, denunciano gli agricoltori. Acini avvelenati, cuori trafitti e preghiere che nessuno forse esaudirà. I volti della rivolta a Terzigno e Boscorele sono soprattutto volti femminili, facce tese nel dolore sopra giubbotti pesanti a proteggere dal freddo, capelli appicciati alla fronte dall'umidità della notte. Ieri, in una delle giornate più cruente della guerra del Vesuvio, proprio le donne sono state le protagoniste principali. Madri coraggio che provano, invano, a essere scudi umani. Ave Maria contro la discarica Sari, contro l'inquinamento in un Parco, patrimonio dell'Unesco. Rosari impugnati contro i manganelli: fotogrammi da una terra stuprata. Come ha fatto Antonietta Ascione, 55 anni, di Boscotrecase. La sua mano alzata che impugna la coroncina e la sua faccia tesa, quella di una donna che a stento trattine le lacrime sono il simbolo della battaglia delle donne. «Sono una mamma e sono una nonna» dice con una voce che subito s'infervora e sale di tono. «Noi eravamo andate in pace e ci hanno bastonato. Ci siamo inginocchiate davanti ai camion, ma non è servito a niente. Ci hanno strattonato e a me hanno dato anche un calcio nel didietro. La polizia dovrebbe stare con noi, non contro di noi». E poi urla la sua disperazione: «Possiamo solo pregare, ma non basta, contro questa puzza acida che ci ucciderà tutti». C'è amarezza, invece, nelle parole di Luisa Lettieri, una delle mamme vulcaniche che ieri mattina presidiava, fin dall'alba, l'imbocco che dalla rotonda Panoramica. Racconta: «Ci siamo date appuntamento alle 6. Per ingannare il tempo si recitava il rosario, perché solo a Dio sembra che possiamo affidarci. Poi è arrivata la polizia a sgomberare la strada per far passare i compattatori e sono cominciati i guai». I manifestanti erano circa duecento. «Le botte» continua la Lettieri «ci sono state intorno alle 9,30. Un quarto d'ora terribile. Eravamo sedute a terra, incuranti del fango e della monnezza, abbiamo alzato le mani e abbiamo mostrato le coroncine. Io sono stata afferrata alla gola. Non c'è rimasto altro da fare che guardare sfilare i camion, una settantina, con la sconfitta nel cuore». Il coro delle donne è da tragedia greca, ascoltato mille volte nei tg e in Rete: «Dobbiamo difendere i nostri figli, non si può vivere con la discarica. Quando c'era l'emergenza, due anni fa, abbiamo accettato che aprissero la Sari perché ci avevano assicurato che era sicura. Invece non lo è per nulla». A Terzigno, in serata, rimbombano le parole del vescovo di Nola, Beniamino Depalma, a riprova dell'impegno della Chiesa contro l'assassinio della natura: «Come pastore, rivolgo una richiesta umile ma decisa a tutte le autorità interessate: ascoltate le ragioni degli amministratori e dei cittadini, non abbiate pregiudizi. Sono loro che vivono questa terra, sono loro che vedono le conseguenze degli scempi ambientali». E si affida al Signore: «Ascolta la nostra supplica, liberaci dall'angoscia e dal pericolo». Per documentare la devastazione di un piccolo mondo caro agli dei, irrorato e nutrito dal magma del Vesuvio, qualcuno mostra come la frutta che cresce sugli alberi è ormai segnata dal male. Un paradiso terrestre dove crescono le mele avvelenate, come in una favola senza lieto fine, per ora. Un contadino, Aniello Matrone, ha con sé proprio una cesta di mele deformi: «Se gli alberi producono questo, figuriamoci cosa può succedere ai bambini che nasceranno in questo Parco della morte».