Sconti in appello, bufera sul dossier dei pm
Neanche il tempo di incassare la nuova investitura dalle urne che ha convocato una riunione della camera penale. Il presidente dei penalisti Michele Cerabona (ieri riconfermato con l’ottanta per cento del consenso) entra spalle larghe nel nuovo fronte polemico che ha investito i magistrati del distretto. Se i pm della Dda raccolgono i sentenze per studiare il trend delle proprie inchieste tra il primo e il secondo grado, Cerabona non nasconde la propria preoccupazione: «Trovo molto grave quanto sta accadendo. Qui si fanno i processi ai giudici d’appello, si fabbricano dossier, tanto che mi chiedo: contro chi o contro cosa? Contro magistrati ritenuti responsabili di aver accolto le subordinate avanzate dagli avvocati?». Piazza Cenni, urne da poco aperte, il presidente Cerabona ha ancora in mano il proprio programma elettorale: «Al primo punto c’è la tutela della indipendenza dei giudici, il rispetto della loro autonomia. È un problema di cultura giuridica - aggiunge -: le sentenze si rispettano quando ci sono ergastoli o assoluzioni. Chi non è d’accordo, può esprimere il proprio dissenso attraverso l’impugnazione». Eppure il caso degli sconti in appello tiene ancora alta l’attenzione di molti sostituti procuratori. Una vicenda che merita una premessa: non è mai stata messa in discussione l’autonomia di sostituti procuratori generali e di magistrati d’appello, né la loro dedizione al lavoro. Ad alimentare la polemica - secondo alcuni pm della Dda - il ricorso a forme di patteggiamento, istituto che una recente riforma ha estromesso dai processi di mafia: gli avvocati rinunciano ai motivi di merito, c’è una sorta di confessione da parte dell’imputato e le pene vengono livellate verso il basso. Un meccanismo che non piace a decine di pm del pool anticamorra, quanto mai decisi a sollevare il caso nel corso della prossima riunione, alla presenza del sostituto procuratore nazionale antimafia Filippo Beatrice. Decine di casi finora segnalati al procuratore Giovandomenico Lepore, come segnalato ieri dal Mattino: le pene per i clan Sarno-Panico, per il gruppo di Roberto Mazzarella, per il clan Misso. Una fitta raccolta di documenti. Ordinanze, sentenze di primo grado e in appello. C’è anche un caso di lupara bianca nel dossier del pool anticamorra: è la sparizione di Nicola Smarrazzo, consumata ad Ottaviano nel 2007, per la quale viene condannato a trent’anni in primo grado Carmine Zuccarello, che recentemente in assise appello si vede dimezzare la condanna. Da trenta a sedici anni, dunque: libero convincimento dei giudici - uno dei principi della nostra Costituzione - che crea però disappunto nei titolari delle indagini. Che raccolgono la sentenza d’appello, col proposito di portarla in discussione nel pool. Una querelle tutt’altro che conclusa, su cui interviene la più alta carica del distretto, il presidente di Corte d’Appello Antonio Buonajuto: «La Corte d’appello fa il suo dovere. Sentenze diverse sono il frutto della piena autonomia dei giudici e chi se ne duole ricorra pure in Cassazione, tutto il resto sono solo illazioni e congetture infondate». Ma perché la giunta dell’Anm parla di «gravi problemi, come quelli che riguardano il giudizio penale in fase di appello»? Il presidente Buonajuto non accetta dietrologie: «Perché qui c’è una situazione tragica, vista la endemica carenza di giudici e di personale, c’è una difficoltà di rincalzare i colleghi in pensione che rende tutto più complesso. La giunta dell’Anm, quando parla di «note difficoltà determinate dal carico dei procedimenti» mi dà un assist, perché conferma le nostre difficoltà a far fronte al flusso di procedimenti».