La mappa dello scempio resta nel cassetto
Due anni fa l’Arpac ha censito le coltivazioni sui suoli inquinati: nove tra le province di Napoli e Caserta
Da Cuma a Mondragone, lungo l’intero asse domiziano. Da Quarto a Castelvolturno, attraverso le vie interne che collegano le province di Napoli e Caserta. E poi: i terreni di Cancello Arnone attraversati da via Pagliuca, l’area dei laghetti artificiali di Mezzagni e via dei Diavoli. Inoltre: l’area di stoccaggio delle ecoballe, che si estende nei comuni di Santa Maria la Fossa e San Tammaro. Infin,e l’area industriale di Maddaloni e Marcianise, fino a Caserta, località Lo Uttaro, dove l’immondizia accumulata negli anni è stata messa a seccare al sole ma non è stata mai rimossa. È una fetta di territorio che comprende buona parte di Terra di Lavoro e un pezzo di hinterland napoletano; è quella che un tempo veniva chiamata Campania Felix, fertilissima madre di eccellenze ortofrutticole. Ora coincide quasi perfettamente con l’area avvelenata dai rifiuti, bonificata solo per il 20 per cento della sua ampiezza. Interventi che, realtà, riguardano quasi esclusivamente la rimozione di materiali di risulta o di immondizia comune. I progetti annunciati negli anni e finanziati, l’istituzione di una società mista ad hoc, come la Recam, si sono rivelati tutti dei flop. I depositi di scorie industriali, i grandi bacini infetti, sono ancora lì dove i monitoraggi del Noe e le confessioni dei collaboratori di giustizia li hanno fatti individuare. Aree che sono oggetto di coltivazioni intensive, concimate con ammendante che in molti casi è risultato essere un miscuglio di sostanze altamente inquinanti provenienti dai depuratori di Cuma e Villa Literno. Pesche, albicocche, susine, broccoletti, spinaci, fragole, mais da granella: nei mercati finiscono con la sola indicazione «Italia» nel cartellino della tracciabilità. Gli ambulanti che si incontrano sulle strade non offrono neppure quella generica informazione. La verità, come hanno testimoniato anche le conversazioni intercettate durante l’inchiesta «Madre terra», è che una parte consistente del nostro patrimonio ortofrutticolo è coltivata su terreni inquinati, censiti e mappati nel 2007 e 2008 dall’Arpac. Tra Napoli e Caserta le aree interessate dallo smaltimento illegale di rifiuti tossici e nocivi, cioè i territori sfruttati dal clan dei Casalesi e da questo destinati a cimitero delle scorie industriali provenienti dal Nord, sono almeno nove. E sono tutte concentrate all’interno di un quadrilatero che coincide anche con i cimiteri delle vittime delle lupare bianche: i pozzi che un tempo sono serviti all’irrigazione dei campi sono stati successivamente utilizzati per nascondere cadaveri. Sono stati la tomba, per esempio, di Luigi Griffo e Paola Stroffolino, la psicologa di Formia vedova di Alberto Beneduce, pupillo di Antonio Bardellino, capozona di Baia Domizia, narcotrafficante internazionale. Il sito più conosciuto è quello di Santa Maria del Pozzo, con tutti gli ampliamenti (alcuni autorizzati nonostante fossero già saturi) della località Schiavi. Siamo al confine tra Giugliano e Parete, stessa area del deposito delle ecoballe gestito dalla Fibe contro il quale, negli anni, ci sono state decine di proteste popolari rimaste, però, inascoltate. È grande 210 ettari. Poco più a sud c’è la discarica privata di Novambiente. A sinistra, lato mare, confinanti con Masseria del Pozzo, c’è la discarica Resit, oggetto di numerose indagini giudiziarie e sequestrata da tempo. Apparteneva a Cipriano Chianese, avvocato e faccendiere di Parete, più volte, e da oltre sedici anni, coinvolto in inchieste sulle ecomafie. Chianese ha utilizzato due cave prospicienti, la X e la Z, 60 ettari in totale oggetto di autorizzazioni illegittime e che al titolare sono fruttate oltre trenta milioni di euro. In località Giuliani, a destra di Masseria del Pozzo, ci sono gli 8.500 metri quadri della discarica Fibe. Tra San Giuseppiello (area sequestrata e che era stata affidata in custodia a Nicola Vassallo, fratello di Gaetano, sequestrata nuovamente ieri) e Resit c’è un deposito illegale di fanghi. A Ponte Riccio, a sud-ovest del quadrilatero, ci sono undici piazzole di stoccaggio delle ecoballe, che occupano un’area di 88 ettari. All’interno delle discariche abusive, autorizzate, a gestione pubblica e privata – tutte oggetto di indagini della magistratura e di sequestri – le indagini geofisiche magnetometriche hanno individuato delle «toppe» magnetiche che l’istituto nazionale di geofisica ha attribuito alla presenza di materiali ferrosi nel sottosuolo. Non è migliore la situazione dei corsi d’acqua interni, a Castelvolturno: il fiume, i canali, i laghetti prodotti dall’escavazione selvaggia della sabbia – attività che negli anni Novanta era gestito dal consorzio di camorra Concav – sono altamente e pericolosamente inquinati da metalli pesanti la cui concentrazione ha provocato, come rivelato da uno studio dell’Università di Napoli, itteversibili modificazione del patrimonio ittico locale. L’esempio più significativo è stato offerto dalla mutazione delle patelle: i maschi hanno perso le capacità riproduttive, sono sopravvissute solo le femmine che ora, di conseguenza, sono a rischio di estinzione. Se le indiscrezioni sui risultati degli esami fatti dall’Arpac in primavera saranno confermate, entro la fine di questo mese potrebbero essere sequestrati i laghetti che sono stati cimitero dei fusti tossici, alcuni dei quali ora trasformati in impianti sportivi. Impianti che hanno funzionato anche durante la stagione estiva, nonostante i sospetti di un grave inquinamento.