Mare sporco, due anni di silenzi sui veleni
L’allarme sul depuratore di Cuma era stato lanciato molti mesi prima dell’estate del mare sporco, delle psicosi collettive su bolle e vermi (veri o presunti) che inquinano spiagge e relax dei napoletani. Non un sos ambientalista, ma un documento ufficiale commissionato dal governo e consegnato ai tecnici della Regione Campania come road map: diagnosi severa - firmata dai consulenti Giuseppe Enrico Bova, Giovanni Melluso e Domenico Pianese -, oggi punto di partenza obbligato per l’inchiesta condotta dalla Procura di Napoli. Da qualche giorno, quel documento è sul tavolo del procuratore aggiunto Aldo De Chiara, che coordina l’inchiesta sul depuratore di Cuma assieme ai pm Lucia Esposito, Antonio D’Alessio e Pasquale Ucci. È una fotografia dei primi 14 mesi di gestione Hydrogest, prima che il depuratore transitasse dal controllo del commissariato di Governo ai tecnici di Palazzo Santa Lucia. Cosa raccontano i tre consulenti nella maxiperizia? Siamo a novembre del 2007, diciotto mesi prima della grande depressione dei lidi balneari targata estate 2009, molto prima dello sciopero di centinaia di dipendenti del depuratore di Cuma in attesa di stipendio. Poche pagine, linguaggio da addetti ai lavori, per chiarire che il depuratore non funzionava a dovere e che quanto viene scaricato a mare è ben lontano dagli standard richiesti. Ma ecco alcuni punti delle conclusioni affidate dai tre consulenti agli uffici della regione Campania: «Durante i sopralluoghi non è emersa traccia di avvio dei lavori di adeguamento dell’impianto previsti dalla finanza di progetto». Poi: «La mancata stabilizzazione dei fanghi, l’emissione di biogas incombusto, il ridotto conferimento dei fanghi prolungato nel tempo, l’emissione di cattivi odori in atmosfera comportano un complessivo aggravamento dell’impatto ambientale dell’impianto, oltre che del rendimento depurativo». E non poteva mancare la stoccata finale che racconta con due anni di anticipo che il depuratore non funziona a dovere e che gli scarichi a mare non fanno altro che peggiorare le condizioni delle nostre coste: «La qualità media del refluo in uscita risulta essere, per alcuni parametri, al di fuori dei limiti imposti dalla normativa vigente». Ecco le altre problematiche emerse, a partire dal capitolo «trattamento fanghi», la cui «problematicità determina l’inevitabile scarico a mare del fango stesso frammisto al linquame influente». Inoltre, «la circolazione di fango attraverso la fogna interna comporta, in condizione di pioggia, il rischio di esondazione del fango sulla strada, si all’interno che all’esterno dell’impianto». Scontato, a questo punto, il riferimento al «conseguente rischio ambientale e igienico sanitario». È da qui che partono le indagini, in una vicenda in cui è opportuno non anticipare profili di responsabilità penale. Ma a leggere gli atti acquisiti, la storia del depuratore sembra essere la cronaca di un disastro annunciato, in un fascicolo che ipotizza allo stato reati ambientali (disastro), e di pubblica amministrazione (truffa e abuso d’ufficio). Si parte da una serie di interrogativi sui rapporti tra Hydrogest e Palazzo Santa Lucia, alla luce di un documento che sembra essere rimasto lettera morta: quali sono state le spese affrontate negli ultimi due anni? Quanto è costato gestire un impianto non all’altezza degli standard richiesti?