Bomba da cinque chili paura alla Erreplast
Titolari parte civile contro i Casalesi
Cinque chili di tritolo. Forse anche di più. Esplosivo custodito nell’involucro di acciaio di un proiettile calibro 160, dieci centimetri per sessanta di bomba da cannone: se fosse esploso, avrebbe distrutto l’intero capannone e ucciso i dipendenti della Erreplast, a Gricignano, che stavano lavorando ai rulli automatici di smistamento del materiale da riciclare. Stavano separando dalla plastica l’alluminio e l’acciaio raccolti nei contenitori della differenziata, probabilmente dai cassonetti di Carinaro e Gricignano anche se l’azienda ricicla materiale proveniente anche da Napoli e dai tutti i comuni consorziati con Geoeco. Uno scherzo? Il gesto incosciente di un contadino (o di un muratore) che ha trovato l’ordigno in un campo o in un cantiere e ha pensato di sbarazzarsene senza avvertire i carabinieri? Possibile, dicono gli investigatori. Ma poco probabile e, soprattutto, mai avvenuto prima. La vicenda sarebbe stata archiviata così se la Erreplast non fosse un’azienda sottoposta a vigilanza. I proprietari, i fratelli Antonio e Nicola Diana, sono figli di una vittima della camorra (il padre Mario, costruttore, fu ucciso a Casapesenna per aver rifiutato un favore ai boss Antonio Bardellino e Mario Iovine) e parte civile nel processo contro Antonio Iovine, il «ninno», uno degli attuali capi del cartello dei Casalesi, latitante da oltre tredici anni. Processo che si è concluso con la condanna all’ergastolo di Iovine. Una scelta coraggiosa e senza precedenti, quella della famiglia Diana, la cui importanza era stata sottolineata durante la requisitoria anche dal pm antimafia Antonello Ardituro, che aveva sostenuto l’accusa in Corte di Assise. Gli stessi fratelli Diana, inoltre, un anno fa avevano dato lavoro a Massimo Noviello, uno dei quattro figli dell’imprenditore Domenico Noviello, ucciso da Giuseppe Setola e dai suoi complici agli inizi della campagna del terrore. Anni prima aveva denunciato gli uomini del clan Bidognetti che gli avevano chiesto la tangente. Gli artificieri dell’Esercito che ieri mattina hanno fatto brillare l’ordigno - ad uso militare e di fabbricazione italiana, con la matricola illegibile - alla foce del Volturno, ritengono che le vibrazioni del rullo trasportatore ben difficilmente avrebbero potuto provocarne l’esplosione. I carabinieri, che hanno effettuato il sopralluogo nell’azienda, ritengono assai improbabile che il tritolo sia finito per caso su quel rullo e stanno valutando con attenzione, infatti, la possibilità che possa trattarsi di una intimidazione. Un modo per dire: «Noi siamo qua, in azienda entriamo quando vogliamo noi».