Giacche e scarpe in fumo tra i cavoli e le lattughe

Lo scenario raccapricciante dei campi
20 dicembre 2008 - Enzo Ciaccio
Fonte: Il Mattino

Afragola. A un soffio dai cumuli fumanti di giacche, giacconi, pezze varie e paia di scarpe carbonizzate si distende verdissimo un campo di lattughe, allineate in filari di geometrico rigore. Più avanti, rami di prugne. E di loti. E poi un fiume di cavoli, grossi e rotondi. Campagna ubertosa. Fertile. Mai avara. Però espropriata. E avvelenata. Per sempre. Qui si respira rabbia e diossina. Anzi, solo diossina. Benvenuti a Ponte del Cane, discarica di malavita tra Acerra e Marigliano, località senza futuro a ridosso dell’Asse mediano che collega Nola a Villa Literno. È qui, come in decine di altri lazzaretti disseminati nelle campagne di Caivano, Afragola, Marigliano, Arzano, Castelvolturno, che di notte si dà fuoco ai rifiuti illegali, alle tonnellate di indumenti difettosi e mai igienizzati provenienti dalle raccolte «porta a porta» di mezza Italia di cui gli opifici di Ercolano, Cercola, Casoria e altrove debbono ogni giorno liberarsi. A tutti i costi. A basso costo. È qui, in queste campagne condannate a morte, che la merce deve scomparire. Qui, fra le pecore già in agonia. E il verde che sbiadisce in grigio. Con discrezione. E poca spesa. Un crimine organizzato, come da anni denuncia Legambiente, nella cosiddetta Terra dei Fuochi. Un crimine che ai trasportatori senza scrupoli viene pagato 300 euro a viaggio. Ogni viaggio, una decina di balle. Ogni balla, fino a 300 chili di merce. Ogni camion, almeno due viaggi per notte. Ogni notte, almeno due o tre camion per ditta. È un crimine appetitoso. Che rende in breve milionari. E si consuma da decenni. In cambio di un’ecatombe. Di veleni. E di morti per tumore. «Come funziona? Per dar fuoco alle balle - spiega Giovanni Tedesco, il giovane carabiniere del Noe (nucleo operativo ecologico) di Napoli, che ci guida in “passeggiata” - fanno ricorso alla benzina. L’uso delle aree è ciclico: ogni notte si cambia, per non stressare i luoghi. Poi si ritorna nel luogo di partenza. Un po’ come fa il contadino quando coltiva». Spiega il capitano Achille Sirignano, comandante del Gruppo tutela ambientale di Napoli: «A maggio sequestrammo tre automezzi. E prima tanti altri ancora. Ma loro non si fermano. Dopo ogni sequestro, c’è una centrale che rifornisce di nuovi camion chi trasporta. Le pezze, quelle vendibili, finiscono nel giro nazionale dei mercatini oppure, se risultano di terza scelta, in direzione Terzo mondo, Marocco e paesi del Maghreb in primo luogo, tramite navi». Come funziona l’imbroglio? Si parte dal «porta a porta», dalla raccolta di indumenti usati che, specie nel centro-nord, centinaia di associazioni di volontariato animano ogni giorno con entusiasmo e generosità. Fine benefico e basta, nella stragrande maggioranza dei casi. Ma il prodotto viaggia senza controlli. E in troppi casi la meta delle pezze raccolte finisce per essere non già il Bene degli altri bensì il business milionario gestito da organizzazioni senza scrupoli. Le «pezze», dopo la raccolta, vengono vendute per essere selezionate e igienizzate negli appositi Centri autorizzati. In realtà, in enormi quantità saltano spesso a piè pari la fase della igienizzazione e vanno direttamente agli opifici birbantoni che ex abrupto le immettono nei circuiti di vendita, tramite codici alterati. Vendita illegale. Però assai fruttuosa. Al business partecipa una pletora di soggetti, molti dei quali ancora da identificare dai carabinieri del Noe. Funziona come nei film. Ogni camion è preceduto e seguito da auto-staffetta. A ogni rotonda il camion effettua spesso giri inutili, per «bonificarsi» rispetto a eventuali inseguitori. In troppi non temono il castigo, sebbene sia prevista per questo reato la detenzione fino a sei anni. Per Legambiente (che in tale ambito ribadisce come «utilissimo l’uso delle intercettazioni») uno dei nodi da sciogliere è l’inserimento dei reati ambientali nel codice penale e l’applicazione di pesanti sanzioni economiche. Lungo il viottolo, qui a Ponte dei Cani, c’è fango e odore di bruciato. «La combustione - racconta il giovane carabiniere - si protrae per tutta la notte. Con effetti devastanti. I contadini hanno paura. E non parlano». La «pezza» è oro. Ed è regolata da ferree leggi di mercato. Una giacca a vento del Vomero vale 40 centesimi al chilo, una di Scampìa solo cinque. Perché chi abita nel Bronx non è vomerese. E veste di scarsa qualità. Una pressa, un muletto, un bancone: gli opifici dell’hinterland non si contano. E lavorano senza soste. Dai cinque ai venti dipendenti, tutti intenti a scomporre le balle, a verificare se il giaccone ha troppi buchi o può essere invece rivenduto. Magari nei mercatini di Algeri. O di Marrakesh. Laggiù sono secoli che si accontentano. E non fanno domande.

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