Panorama con sterpi e cocci la sporca estate di S. Martino
C’è una guida turistica in cima a San Martino. Accompagna una coppia di anziani americani. Lei ha una stampella, lui la fotocamera digitale. Nonostante la foschia da stufato di agosto, lo sguardo può allungarsi fino al Vesuvio, appena velato. Sotto la città divisa dalla ferita nera di Spaccanapoli la si può agguantare in un’inquadratura, se sei bravo. Quello è il museo di Capodimonte, laggiù, spiega la guida, lo vedete quel tetto verde? È il monastero di Santa Chiara. Sì, proprio quello del cuore scuro scuro. Poi l’occhio fa marcia indietro, si avvicina al belvedere. Ecco la Pedamentina, la lunga discesa pedonale che porta giù Napoli. Meno di vent’anni fa, Domenico Rea la raccontava così, già malinconica: «La più trascurata ma di gran lunga la più bella strada a scalinate della città. Un’erta proprio come quelle dei presepi popolari, ricavata nella carne urbana di Magnocavallo, a salire ripida fin quasi a toccare il cielo. Non c’è un’altra simile erta al mondo, più campestre e lontana da ogni ipotesi di mare o con qualcosa che abbia nome di città contemporanea. Essa sta tra i palazzi ma sembra ricavata dalle rocce». Eccola, oggi, tutta piena di cocci verdi di bottiglie di birra, in questo meriggiare montaliano, pallido, assorto e rovente. È una scia di rifiuti sciolti. Non c’è solo vetro, ma plastica, lattine, cartoni. Uno strato che rende ancor più scivolosi gli antichi bàsoli. E guai a finire a terra. Lacrime e sangue. E, poi, la sterpaglia secca. Cartacce e sacchetti sparsi. Monnezza. La solita «zella» napoletana. Il cuore scuro scuro della città, fatto a pezzi, offerto all’appetito e alla curiosità di colonie di zoccole fameliche, stordite dal caldo. Le senti frusciare, nascoste. Ma chi abita qui, giura, e non si stenta a credergli, che sono molto agguerrite. Rischiamo di trovarcele in casa anche in pieno giorno, raccontano. Ma tutto questo ai vecchi americani viene risparmiato. Si rimettono in auto e vanno via. Altro giro, altra corsa. Resta l’unto perenne attaccato alle scarpe e al marciapiede, quella traccia nera, sporca, scura scura, che unge tutta Napoli, il sacro e il profano, il nobile e il lazzaro, i quartieri borghesi e quelli popolari, il Vomero e la Pignasecca. La «zella». È il risultato di una fermentazione perenne di liquidi appiccicosi riversati a terra, di liberazioni corporali, di merde di cane. Vedi Napoli e i suoi umori. «Se si eccettua Fondi, non ho visto nulla al mondo sporco come Napoli» si lamentava Charles Dickens nel 1845. In tutto questo tempo Fondi si sarà riscattata. L’oro del podio più alto, in questa Olimpiade del fetido, è nostra. Attorno, il piazzale della Certosa, un deserto nero, un capolinea di malumori. Tavolini vuoti come i negozietti di souvenir. Il Vomero, con Chiaia, è tra i quartieri più svuotati dalle ferie di stagione. Negozi chiusi, poche montagne di cartoni in giro. Nell’ultimo weekend d’agosto, le strade principali sono pulite. Cassonetti vuoti. Strisce blu spesso libere, tanto da far risaltare le decine di auto abbandonate da mesi, senza targa, incidentate, coperte di polvere portata dai venti invernali e primaverili: a via Tino da Camaino, a via Girolamo Santacroce, a piazza Leonardo, ma anche al corso Vittorio Emanuele. A Salvator Rosa, invece, qualcuno ha cambiato l’arredo della camera da letto. Tutto nuovo. E i vecchi mobili? Sul marciapiede: materasso, ante, cassettoni, appoggiati alle mura e sfusi come frammenti privati che non possono essere riciclati. Ingombranti. Indifferenziati. Scenario quasi analogo a via Palizzi, di fronte alla stazione del Petraio della funicolare: una lavastoviglie rottamata alla napoletana, bustoni Ikea e la candida tazza di un water. Come in Asia, aspettando l’Asìa. Rispetto a Scampia (zona campo nomadi) o Gianturco (tra i capannoni dismessi della periferia delle Brecce di Sant’Erasmo) è solo una questione di quantità. La mentalità è identica.