Un inceneritore tra bufale e ordigni
Un campo minato. E’ così che si presenta il terreno dentro il quale dovrebbero affondare le colonne del terzo inceneritore campano, quello di Santa Maria La Fossa, vicino di casa della discarica di Ferrandelle. Non è una maniera simbolica per descrivere le proteste di queste ore, di questi e dei prossimi giorni. Le mine nel terreno ci sono sul serio. E nonostante la bonifica del 2006 l’area ne è infestata. Proprio ieri i manifestanti che hanno «invaso» la discarica individuata dal supercommissario De Gennaro hanno rinvenuto tre ordigni. Tre granate da mortaio, grandi come birilli, «dimenticate» chissà da quanto. Di sicuro nel casertano non c’è stata mai nessuna Linea Maginot. Più banalmente la zona limitrofa, quella di «residenza» per l’inceneritore, era di proprietà della famiglia Comparini, i cui componenti di «fatica», per decenni, hanno fatto gli smaltitori di residuati bellici. Un mestiere «a tempo» per evidenti ragioni. Ora - come è accaduto all’inizio della settimana in pieno centro di Napoli - le bombe abbandonate dalla seconda guerra mondiale si fanno brillare, non si nascondono più sottoterra nelle campagne. Lì però in località Nocivo è andata così per molto tempo. Il terreno è stato cosparso di mine, e quando non c’è stato più posto, o meglio la «ditta» si è avviata al fallimento, il podere è stato «rilevato» da un tale Abramo Paniccià. Ma cosa ci avrebbe mai fatto un pensionato con un podere zeppo di bombe?
L’appezzamento è recintato con il filo spinato ed è attualmente di proprietà del commissariato di governo. Ci troviamo in un baricentro interessante, un punto di equidistanza tra Grazzanise, Santa Maria La Fossa, Capua, San Tammaro e Casal di Principe. Territorio di frontiera, ma in possesso al clan dei Casalesi. Qui per tutti gli anni ‘80 nulla si è mosso senza il cenno accondiscendente di Francesco Schiavone, detto Sandokan. Per la Famiglia avere la proprietà di quanti più appezzamenti di terreno significava la distanza tra il clan-reggente e la sudditanza. Retaggio rurale, ma è per questo che da tutti a Casale, Paniccià è considerato un prestanome, proprietario di un appezzamento di terra inutilizzabile. Proprio l’anziano pensionato vende tutto alla Fisia Italimpianti, controllata Impregilo. Da questo momento parte la «legalizzazione». L’azienda aveva infatti un obiettivo: costruire l’inceneritore, quello divenuto a seconda delle fasi dell’emergenza il numero due, tre, quattro o addirittura cancellato dal ciclo di smaltimento regionale. Dal piano del 1997 l’inceneritore era, infatti, previsto a Battipaglia abbinato a uno dei sette impianti di Cdr. Ma in quello stesso anno la commissione Via esprime parere negativo. Improponibile l’idea di allestire due impianti del genere in una zona dalla «marcata presenza di attività produttive nel settore agro-alimentare». L’Impregilo non si perde d’animo e cambia programma. Il 28 febbraio del 2001 il commissario Bassolino chiede al ministero dell’ambiente la compatibilità ambientale per il sito di Santa Maria La Fossa. Un via libera che arriverà dopo appena 4 mesi, a giugno con l’allora governo Berlusconi. Nonostante nell’area ci fossero già tre discariche Parco Saurino I e II e Maruzzella. Ma soprattutto nonostante la Fisia non avesse chiarito come avrebbe smaltito le scorie tossiche dell’incenerimento, materiali che necessitano di fosse o discariche speciali perché altamente inquinanti.
All’epoca le uniche richieste del ministero furono il monitoraggio del territorio, ma solo per il primo anno di attività. Eppure secondo la documentazione l’inceneritore della Fisia avrebbe prodotto il 20% delle scorie rispetto alle 27 tonnellate di Cdr introdotte ogni ora. L’opera da 600 miliardi di euro che doveva “fotocopiare” il termovalorizzatore di Brescia, con un camino alto 110 metri, non partirà mai. Ufficialmente a causa dell’emergenza cronica, nella pratica fa parte del fallimento di una gestione commissariale in mano ad una azienda, l’Impregilo, attualmente indagata per truffa.
Cancellato dai programmi tra il 2005 e il 2006 per lasciar posto a un unico megainceneritore regionale, quello di Acerra, l’impianto torna protagonista nel piano Prodi del 5 luglio 2007. Il 27 luglio il ministro Pecoraro Scanio approva. Il via libera arriva con 40 prescrizioni, ma il progetto non è molto differente da quello originario. L’inceneritore dovrebbe servire tre province bruciando 975 mila tonnellate rispetto alle 1700 di Acerra. Qui arriveranno le ecoballe dei Cdr di Pianodardine (Av) Casalduni (Bn) e Santa Maria Capua Vetere, (Ce). «Ma nei dati forniti dal commissariato Pansa – spiega Antonio Del Castello del comitato per l’ambiente di Capua - l’area destinata all’istallazione viene rilevata lontana da zone interessate da vincoli come il Volturno e il centro storico di Capua e non caratterizzata da elementi di pregio paesaggistico. In realtà non si fa nemmeno il minimo cenno al fatto che si produce la mozzarella dop, quando pure Santa Maria La Fossa rientra in un territorio che sforna il 70% del latte di bufala, contro il 30% di Battipaglia. Cosa intendono fare dunque?». E questo sarà un altro nodo da sciogliere prima o poi. Magari non per il supercommissario De Gennaro venuto a Napoli per risolvere l’emergenza e ripartire. Inoltre la gara per la costruzione è ferma, come quella per Acerra, per il ciclo di raccolta e degli impianti Cdr. Insomma un disastro nel disastro, perché nessuna azienda si è presentata per garantire la «normalità». Qualora di normalizzazione si dovesse mai arrivare a parlare.