Petroli, rifiuti e il fiume di soldi del clan La Torre
È il marzo del 2006 quando le azioni della SS Lazio spa hanno una velocissima accelerata, con una oscillazione del del 34 per cento. Le voci di mercato dicono che Claudio Lotito, contestato dalla tifoseria organizzata e dagli ultrà dell’estrema destra, è pronto a cedere la maggioranza del pacchetto azionario a Giorgio Chinaglia. «Long John» conferma tutto, e anzi aggiunge: «Ho depositato 24 milioni di euro in una filiale del San Paolo Imi di Roma, la squadra sarà mia». È il 28 marzo, Piazza Affari risponde con il sorprendente rialzo, ma l’andamento anomalo del mercato azionario accende i sospetti della Consob che apre un’inchiesta. In quegli stessi giorni la Dda di Napoli sta indagando su Giuseppe Diana, grossista di petroli e derivati, monopolista nell’area domiziana. È il cognato di Michele Orsi, direttore generale di Ecoquattro, ucciso due mesi fa a Casal di Principe. È l’uomo, dicono i pentiti, che riciclava i soldi delle estorsioni raccolti dal clan La Torre, nell’area mondragonese, e del clan dei Casalesi. L’analisi dei movimenti contabili delle società di Diana, soprattutto della «Nuova Diana gas» e della «Domizia gas», evidenzia una rimessa di 21 milioni di euro a vantaggio della cordata rappresentata da Giorgio Chinaglia, e cioè la società farmaceutica italo-ungherese riconducibile a Szilvas Zoltan, Carlo Guido Di Cosimo, Giancarlo Benedetti. Soldi arrivati sui conti di Diana attraverso una società inglese. Le due inchieste, quella della Consob (che si è conclusa a novembre dello scorso anno con la condanna di Chinaglia al pagamento di una multa 4,2 milioni di euro per «condotte manipolative») e quella dei pm antimafia Raffaele Cantone e Alessandro Milita, si incrociano. Il sospetto è che il clan dei Casalesi, attraverso Giuseppe Diana, abbia investito parte delle sue risorse nella scalata alla società calcistica biancazzurra. A giugno del 2006 le perquisizioni, l’anno dopo l’arresto di Diana, accusato di associazione camorristica e da allora detenuto nel carcere di Opera al 41 bis. I suoi beni vengono sequestrati: case, società, conti correnti, denaro contante, assegni. Ma dei 21 milioni di euro viene recuperata solo una piccolissima parte, appena il dieci per cento. E il resto dov’è finito? La Dda sostiene che sia rientrato nelle casse del clan dei Casalesi, attraverso la costellazione di società - alcune con sede nella Capitale, altre all’estero - che fanno riferimento all’organizzazione criminale più potente della Campania. Diana, dal carcere di Opera, si difende denunciando Chinaglia. L’imprenditore, che attraverso i suoi legali ha presentato una denuncia per truffa agli inizi del 2008, sostiene di essere stato raggirato dall’ex bomber biancazzurro conosciuto in Gran Bretagna per tramite di un promoter al quale si era rivolto, dice, per un finanziamento. Il resto è contenuto nei verbali d’interrogatorio del cognato Michele Orsi, ucciso dalla camorra, e del fratello Sergio, come lui arrestati dalla Dda di Napoli nell’inchiesta sul consorzio intercomunale dei rifiuti Ce4: il calderone che ha raccolto le istanze di camorristi e politici, camera di compensazione delle richieste dei salotti buoni che con i Casalesi hanno fatto affari a distanza. Verbali ancora secretati.