Pizzo sui rifiuti, bloccati i camion dell’Asìa
Le mani della camorra sulla raccolta dei rifiuti solidi urbani di Napoli. C’è anche questo negli atti dell’inchiesta che ieri mattina all’alba ha portato in carcere 44 persone al termine di una importante indagine sul clan Licciardi condotta da polizia e guardia di finanza e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Un’inchiesta che di fatto decapita i vertici di una delle famiglie criminali più temibili e potenti di Secondigliano che - come emerge dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia - per anni è riuscita a far soldi anche mettendo sotto estorsione le ditte impegnate nella raccolta della spazzatura. A parlare è il collaboratore Antonio De Carlo, già affiliato ai clan Stabile e Sarno, prima di passare con gli uomini della Masseria Cardone: «Il clan Licciardi, insieme con altri malavitosi napoletani tra i quali i “Capitoni” di Miano (i Lo Russo, ndr) ed altri ancora, nel periodo 2003 percepivano tangenti da ditte impegnate nella raccolta di spazzatura. io stesso - prosegue il pentito - ho bloccato per ordine di Vincenzo Licciardi i camion dell’Asìa, intimando agli autisti di non raccogliere la spazzatura». Ma torniamo all’inchiesta. Il colpo è di quelli che lasciano il segno. Senza esagerare può considerarsi un ko. Al tappeto il clan Licciardi, doppio colpo inferto dalla direzione distrettuale antimafia: 44 ordinanze di custodia cautelare in carcere, ma soprattutto un maxi-sequestro di beni per un totale di oltre 300 milioni di euro. L’inchiesta condotta dai pubblici ministeri Barbara Sargenti e Luigi Alberto Cannavale - che si sono avvalsi delle indagini svolte dalla squadra mobile della polizia (diretta da Vittorio Pisani) e dal Gico della guardia di finanza (guidato dal colonnello Antonio Quintavalle) - ha di fatto decapitato quel che restava dei vertici di una famiglia che ha scritto il proprio nome nella storia della criminalità organizzata di Napoli. Figura centrale dell’inchiesta - come hanno ricordato durante una conferenza stampa il procuratore Giovandomenico Lepore e l’aggiunto Franco Roberti, coordinatore della Dda di Napoli - è il 34enne Giuseppe Barbato, detto «Pino bei capelli». Per i pm, oltre a essere uomo di fiducia di Vincenzo Licciardi - il boss rimasto a lungo latitante prima di essere catturato il 7 febbraio scorso a Licola dalla polizia - Barbato sarebbe il cassiere della Masseria Cardone di Secondigliano. Le indagini patrimoniali dei militari del comando provinciale della guardia di finanza (guidato dal colonnello Giuseppe Bottillo) hanno accertato che Barbato dichiarava un reddito molto basso. Ma molte delle società riconducibili al clan Licciardi erano intestate alla madre, Teresa Tufano e ad altri componenti della famiglia, che sono indagati per violazione della normativa antimafia, ai quali fanno capo imprese nel settore calzaturiero, immobiliare e tessile tra Casoria e San Pietro a Patierno. Sempre alla famiglia Tufano risultano intestate le proprietà di un considerevole patrimonio immobiliare costituito da appartamenti, garage, depositi, e persino un locale notturno, oltre ad una rete di negozi di calzature a Napoli, Roma, in Basilicata ed in Toscana. «Ancora una volta - ha sottolineato Roberti - abbiamo voluto privilegiare il profilo dell’aggressione ai patrimoni dei clan, consapevoli del fatto che è aggredendo le ricchezze accumulate che si rende difficile la vita ai camorristi». Dagli atti d’indagine emerge anche che nel 2005, quando il suo nome era già inserito nell’elenco dei 100 più pericolosi latitanti d’Italia, Vincenzo Licciardi riuscì addirittura a fare le vacanze in una villa in Portogallo.Ma è lo spaccato complessivo che dimostra quanto potente e temuto sia ancora il clan Licciardi quello che emerge dalle indagini di polizia e finanza. A dimostrazione di ciò negli atti d’inchiesta si legge come due arrestati siano stati avvicinati il 15 febbraio 2007 da un tale Orlando che li implora di intercedere per l’assunzione di un gruppo di giovani del rione Amicizia presso una cooperativa di parcheggi.