Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici in Campania
Nella classificazione dei rifiuti stabilita dal Codice dell’ambiente[1] sono definiti rifiuti speciali gli scarti derivanti da processi di produzione industriali, da attività commerciali e sanitarie, da costruzioni e manifatture, per il cui smaltimento i produttori si rivolgono ad aziende private. La tipologia dei rifiuti speciali si differenzia a sua volta in non pericolosi e pericolosi, secondo le caratteristiche chimico-fisiche identificate in base ai codici del Catalogo europeo dei rifiuti (Cer). I rifiuti speciali che destano maggiore interesse pubblico sono quelli tossico-nocivi: materiali di scarto contaminanti che causano il deterioramento degli ecosistemi e della salute delle persone esposte a essi. La quantità di rifiuti speciali prodotta ogni anno in Italia è superiore rispetto ai rifiuti urbani: secondo dati ufficiali, nel 2013 sono stati infatti generati 28,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani contro i 131,6 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, e tra questi ultimi 8,7 milioni di tonnellate catalogati come pericolosi[2]. Tuttavia, tali stime vanno prese con cautela, in quanto ogni anno diversi milioni di tonnellate di rifiuti speciali non vengono dichiarati, sfuggendo ai controlli e alle quantificazioni.
Oltre ai rifiuti speciali formalmente inesistenti (che necessariamente sono smaltiti entro canali clandestini), anche diversi milioni di tonnellate di rifiuti che sulla carta sono gestiti secondo le leggi prendono in realtà vie illegali. Il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti, e di tossico-nocivi in particolare, è un fenomeno diffuso a livello planetario, la cui genesi e continua crescita va collegata all’aumento dei processi produttivi, soprattutto delle industrie pesanti e chimiche, da cui risultano scarti che necessitano trattamenti specifici. Basti pensare che, dal 1940 a oggi, la quantità di rifiuti industriali prodotti globalmente è passata da 10 a 400 milioni di tonnellate l’anno[3]. Con l’intervento di leggi atte a minimizzare gli effetti negativi su ambiente e persone, sorte dalla consapevolezza crescente della loro nocività, le modalità di gestione dei rifiuti tossici sono diventate negli ultimi decenni sempre più complesse e costose. Proprio gli alti costi del mercato di smaltimento legale sono una delle cause che spinge aziende piccole e grandi a rivolgersi ai canali di smaltimento illegale. Tali reti coinvolgono produttori di rifiuti, aziende di trasporto, proprietari di terreni e cave, laboratori di analisi e siti di trasferenza, politici, amministratori e organizzazioni criminali, in strutture di movimentazione e smaltimento di rifiuti tossici dagli impatti socio-ambientali devastanti.
Dieci milioni di tonnellate
A partire dalla fine degli anni Ottanta, la Campania è diventata il terminale di ingenti quantità di rifiuti tossici che, attraverso la cooperazione tra attori economici legali e illegali, hanno rappresentato un affare gigantesco, benché sommerso, e la più grande operazione di spostamento dei costi dai bilanci delle aziende alle matrici ambientali e ai corpi dei residenti.
In Campania, i rifiuti tossici smaltiti illegalmente – circa 10 milioni di tonnellate in 22 anni secondo Legambiente[4] – sono stati sversati, dati alle fiamme, intombati, mischiati ai rifiuti urbani, spacciati per compost agricolo, miscelati al cemento di condomini e di strade statali, o semplicemente abbandonati nelle campagne della regione. Se da un lato la genealogia dei traffici rimanda a un sistema illecito complesso e con ramificazioni nazionali e internazionali, specializzato in rifiuti industriali in quantità considerevoli, dall’altro è ormai acclarato come a livello locale siano proliferate pratiche di smaltimento illegale di scarti di lavorazione e rifiuti prodotti da aziende operanti in regime di evasione fiscale all’interno del territorio campano.
Il vasto territorio tra la provincia sud di Caserta e quella a nord di Napoli, un’area di circa 3.000 kmq abitata da più di 3 milioni di abitanti, è stato il più interessato da fenomeni di smaltimento illegale, in parte a causa della presenza di consorterie criminali con un consolidato controllo territoriale – una camorra che è da tempo imprenditoria armata – ma soprattutto per la convergenza di interessi tra esponenti politici ed economici a livello nazionale.
L’esatta valutazione degli impatti della dispersione incontrollata di inquinanti, nonostante la quantità di dati prodotti da centri di ricerca pubblici e indipendenti, è ancora oggi terreno di disputa tra esperti, movimenti sociali e istituzioni, sia per quanto riguarda l’effettiva contaminazione delle matrici ambientali, sia per il legame tra inquinamento da rifiuti e aumento di malattie di vario tipo tra la popolazione residente. Già nel 2005, l’Arpac censiva in Campania 2.551 siti potenzialmente inquinati[5]. Molti di questi ricadono nei Siti d’interesse nazionale (Sin), individuati in base ai criteri dell’art. 252 del decreto legislativo 152/06: vaste aree del territorio dove l’inquinamento di suolo, sottosuolo, acque superficiali e sotterranee è così ampio da costituire un grave pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente naturale, e per le quali le opere di bonifica sono autorizzate sotto la supervisione del ministero dell’ambiente.
Fino al 2013, in Campania i Sin individuati erano cinque: Napoli orientale, Bagnoli-Coroglio, il litorale vesuviano, il litorale domitio-flegreo con l’agro aversano e Pianura; poi ridotti ai primi due con un decreto ministeriale. I rischi in termini di salute per i residenti sono stati oggetto di uno studio nazionale condotto tra il 2010 e il 2014 dall’Istituto superiore di sanità insieme a una rete di istituzioni scientifiche regionali e con il supporto dell’Organizzazione mondiale della sanità: il progetto Sentieri, che ha analizzato i tassi di mortalità, incidenza del cancro e dimissioni ospedaliere tra la popolazione che abita in 18 Sin nazionali, compresi quelli campani, coprendo un periodo di circa vent’anni. L’aggiornamento dello studio su 55 comuni della province di Napoli e Caserta, pubblicato nel 2014, ha confermato eccessi di mortalità e di incidenza tumorale nella popolazione, sottolineando la situazione preoccupante per i bambini tra 0 e 14 anni[6], e tracciando una correlazione significativa tra la presenza di discariche legali e illegali, e zone di maggior incidenza.
La superficialità del racconto mediatico dei legami tra rifiuti smaltiti impropriamente, contaminazione e salute, ha causato tra il 2013 e il 2015 psicosi generalizzate verso i prodotti agricoli campani, sferrando un duro colpo al comparto agricolo della regione. I comitati di base e gli esperti indipendenti hanno tentato di far riconoscere e di fermare il disastro, e in qualche caso sono riusciti a influenzare interventi legislativi e narrazioni dei fenomeni di smaltimento illegale. L’opera degli attivisti è stata fondamentale nel suscitare le reazioni della cittadinanza nei confronti dell’inazione delle istituzioni, facendo emergere una consapevolezza diffusa dei legami tra rifiuti nocivi, contaminazione di corpi ed ecosistemi, e strategie di profitto, sostanziatosi nell’elaborazione del concetto di Biocidio. Nonostante ciò, poco è stato fatto dai governi che si sono succeduti fin dalle prime indagini importanti sul tema. A oggi gli strumenti di prevenzione e repressione del fenomeno risultano ancora inefficaci.
La storia dello smaltimento illegale di rifiuti tossici in Campania è sparsa tra decine di processi, indagini della magistratura, dichiarazioni di pentiti, inchieste giornalistiche e ricerche accademiche, oltre ai documenti prodotti da organizzazioni governative e non, e da comitati popolari locali e regionali. Qui si tenta un sintesi dei passaggi chiave e dei meccanismi che hanno trasformato porzioni della Campania Felix in sversatoi di rifiuti pericolosi.
Le origini dei traffici verso la Campania
La maggior parte dei rifiuti industriali prodotti globalmente non viene trattata in prossimità dei luoghi in cui viene prodotta. Il processo di globalizzazione e la liberalizzazione delle politiche commerciali internazionali alimentano dalla seconda metà del secolo scorso il traffico di rifiuti pericolosi, in particolare dal nord al sud del mondo. Quando le spese di adeguamento alle normative nei paesi sviluppati sono associate a una maggiore quantità di rifiuti e a opposizioni locali, si produce un aumento dei costi di smaltimento dei rifiuti pericolosi. Pertanto, il trasporto di rifiuti verso paesi che difettano leggi rigorose e procedure di controllo consolidate diventa una soluzione economica vantaggiosa. La comunità internazionale ha cominciato ad affrontare il problema nel 1989 con la Convenzione di Basilea, che regola lo smaltimento di rifiuti pericolosi transnazionale. Tuttavia, ancora oggi, le regole vengono aggirate, incrementando un mercato nero molto redditizio per gli attori coinvolti.
L’Italia è stata per lungo tempo un importante crocevia dei traffici internazionali di rifiuti. Le inchieste che nei primi anni Ottanta coinvolsero gli imprenditori Orazio Duvia e Ferdinando Cannavale, il primo proprietario della discarica di Pitelli vicino La Spezia e il secondo titolare della ditta di trasporto rifiuti speciali Tras.fe.mar. Srl, entrambi collegati alla loggia massonica Mozart, scoperchiarono un traffico di rifiuti tossici verso Venezuela, Nigeria e Romania che aveva la Liguria come perno centrale, insieme ai porti di Napoli e Malta[7]. A Pitelli finirono probabilmente anche i rifiuti derivanti dalla bonifica dell’Icmesa di Seveso, esito di un intrigo dai risvolti internazionali in cui erano coinvolti i servizi segreti francesi e la regione Lombardia[8]. I traffici organizzati da società riconducibili a Duvia e Cannavale si incrociano anche con l’imprenditore Comerio e con le “navi dei veleni”: bastimenti carichi di rifiuti pericolosi, in alcuni casi radioattivi, diretti verso la Somalia o fatti affondare nei mari italiani. Sulla rotta somala indagavano i due giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi il 20 marzo 1994 in quella che fu un’esecuzione per impedire le ripercussioni internazionali che la pubblicazione delle informazioni in loro possesso poteva causare. È ormai appurato che i termini degli accordi clandestini con i clan somali implicavano l’invio di rifiuti tossici e il pagamento con forniture di armi[9]. Secondo la ricostruzione proposta da Iacuelli in Le vie infinite dei rifiuti, i casi più eclatanti di affondamenti di navi[10], insieme all’attenzione suscitata dall’assassinio di Alpi e Hrovatin, causarono un inasprimento dei controlli alle frontiere e un rinnovato interesse dei magistrati verso i traffici internazionali, spingendo i trafficanti a privilegiare le rotte interne.
Tuttavia, già dalla metà degli anni Ottanta cominciavano a crearsi le condizioni che avrebbero favorito i trafficanti di rifiuti campani. Tra il 1984 e il 1985, i principali impianti legali di smaltimento rifiuti nel nord Italia vennero chiusi dalle agenzie ambientali regionali per gli alti valori di diossina riscontrati nelle emissioni[11]. Si ebbe quindi un calo dell’offerta nei confronti di una domanda di smaltimento in crescita, che venne intercettata da imprenditori e mediatori dei rifiuti capaci di interfacciarsi sia con le organizzazioni criminali che con i gruppi industriali di primo piano dell’economia nazionale. A quel tempo, nelle campagne a sud di Caserta e a nord di Napoli, l’affare dello smaltimento di rifiuti urbani da parte di aziende che pagavano tangenti ai clan era già in piena espansione. Nelle discariche di Gaetano Vassallo, Cipriano Chianese e Luca Avolio, tra il giuglianese e l’aversano, conferivano decine di comuni della provincia di Caserta, mentre nel napoletano i fratelli La Marca e i fratelli Di Francia gestivano il gigantesco sversatoio di Pianura. Lo spazio disponibile era l’unico limite al costante flusso di rifiuti urbani in entrata, tramite appalti guadagnati grazie all’influenza dei clan dell’area flegrea e del casertano, e ripagati attraverso tangenti. Secondo il racconto del pentito Carmine Schiavone, i Casalesi si interessavano in quel periodo soprattutto di cemento e appalti pubblici. I lavori di costruzione delle superstrade tra Napoli e Caserta – commesse che le aziende legate ai Casalesi ottenevano grazie al controllo delle amministrazioni comunali[12] – aprirono nuove possibilità, per chi sapeva sfruttarle: proprio le buche degli scavi per ricavare la terra da utilizzare nei rialzi sotto le careggiate furono in seguito riempite di rifiuti, senza seguire alcun criterio di protezione ambientale.
Fu con l’interessamento di Ferdinando Cannavale – capace di controllare le autorizzazioni regionali per rifiuti speciali in entrata in Campania tramite l’assessore provinciale all’ambiente Raffaele Perrone Capano –, di Gaetano Cerci – nipote del boss Francesco Bidognetti e in rapporti con il massone Licio Gelli –, e di Cipriano Chianese – vero ideatore del salto di qualità nello smaltimento dei rifiuti dagli urbani ai tossico-nocivi –, che il traffico da tutta Italia verso la Campania fu messo a sistema. Nel 1989, per prendere gli accordi necessari al lancio della società commerciale di trasporto rifiuti Ecologia ‘89, emanazione del clan Bidognetti e formalmente proprietà di Cerci, si tenne la famosa riunione di Villaricca, piccolo comune alle porte di Napoli. Oltre a Cannavale, Cerci e Chianese, c’erano i rappresentanti dei clan dell’area flegrea, tra i quali Nunzio Perrella (il futuro pentito che nel ‘92 racconterà agli increduli magistrati che per la camorra “la monnezza è oro”), c’era Luca Avolio (proprietario dell’Al.Ma. di Villaricca, azienda di trasporto rifiuti, che sarà arrestato nel corso dell’operazione Adelphi), e c’era Gaetano Vassallo, proprietario della Novambiente Srl nel giuglianese e futuro pentito.
Gli accordi raggiunti in quella sede impegnavano i gestori di discariche e i clan a fornire tangenti e supporto ai referenti politici in cambio delle autorizzazioni a ricevere rifiuti in Campania da fuori regione, con la certezza che non ci sarebbero stati controlli. Nell’operazione, i clan misero il controllo del territorio e la propria forza intimidatoria. I contatti con la massoneria garantivano una vasta rete di clienti: gruppi industriali e aziende da tutta Italia in cerca di forme di smaltimento a basso costo. I gestori di discariche in Campania fornivano spazi e documentazioni contraffatte. Si aprirono così le porte all’arrivo di milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Fanghi di lavorazione da processi chimici, ceneri di abbattimento fumi di impianti siderurgici, rifiuti ospedalieri, materiali di risulta di produzioni industriali, sono solo alcuni dei rifiuti tossici finiti impropriamente in impianti campani, seppelliti nelle campagne o spacciati per compost agricolo.
Tra il 1992 e il 1993, i magistrati napoletani con l’inchiesta Adelphi dipanarono per la prima volta l’intero sistema illegale di smaltimento rifiuti tossici verso la Campania. L’emissione di 116 ordinanze di custodia cautelare colpiva i principali protagonisti dei traffici illegali[13]. L’arresto nel 1992 del boss Nunzio Perrella, che iniziò a collaborare con i magistrati, permise per la prima volta di gettare uno sguardo all’interno del sistema. Tutti i partecipanti della riunione di Villaricca vennero tirati in ballo, compreso Licio Gelli. Sulla base delle rivelazioni di Perrella vennero arrestati, tra gli altri, Raffaele Perrone Capano (condannato in primo grado a otto anni, e poi assolto per prescrizione) e Cipriano Chianese, l’inventore delle ecomafie.
I processi scaturiti dall’inchiesta Adelphi, pur offrendo spunti investigativi che verranno approfonditi in anni seguenti, si risolsero per la maggior parte con assoluzioni e prescrizioni, a causa dell’insufficienza delle leggi sui reati ambientali. Nonostante la posizione cardine di Chianese nell’organigramma dei traffici fosse stata accertata, anch’egli venne assolto. Rimase quindi attivo nel business dei rifiuti, e tra il 2001 e il 2003 riuscì a far accreditare i propri impianti al servizio del Commissariato all’emergenza dei rifiuti urbani in Campania, grazie alla mediazione del sub-commissario Giulio Facchi. Chianese venne arrestato ancora nel 2005 e nel 2006, e ha subito una condanna in carcere nel 2015 per estorsione. Attualmente si sta celebrando l’ennesimo processo nei suoi confronti per la vicenda relativa alla discarica di sua proprietà Resit[14], destinataria dalla metà degli anni Ottanta di centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti illegalmente.
Moventi e metodi dello smaltimento illegale di rifiuti
Nel 1994, l’associazione Legambiente raccolse i dati disponibili sui traffici di rifiuti nocivi nel territorio nazionale in un dossier, Rifiuti S.p.A., rendendo pubblico lo stato di illegalità diffusa nel settore dello smaltimento dei rifiuti in Campania, Puglia, Basilicata e Lazio. Nello stesso anno, fu dichiarata l’emergenza rifiuti urbani nella regione Campania. A distanza di 19 anni, nel 2013, ancora Legambiente, in un focus sulle rotte illegali dei rifiuti[15], contava 82 inchieste che hanno coinvolto la Campania. Secondo il dossier, ogni anno, almeno il 15-20% dei rifiuti tossici in Italia scompare tra produzione e stoccaggio finale. Solo nel 2013, gli utili prodotti dalla gestione illegale di rifiuti speciali in Italia (pericolosi e non pericolosi) sono stati stimati in circa 3,1 miliardi di euro, mentre negli ultimi dieci anni il fatturato del traffico illecito di rifiuti è stato di 43 miliardi di euro.
Come accade? Sono almeno tre gli elementi principali che hanno facilitato il proliferare di reti dedite al traffico e allo smaltimento illegale di rifiuti tossici. Prima di tutto, il desiderio di abbattere i costi di produzione da parte di attori economici impegnati in attività ad alto impatto ambientale, soprattutto nei settori industriale e chimico. Dall’inchiesta Houdini (2004), sappiamo che il costo di mercato per smaltire correttamente alcuni tipi di rifiuti tossici imponeva prezzi che andavano da 21 a 62 centesimi di euro al chilo, mentre il mercato illecito forniva lo stesso servizio con prezzi da 9 a 10 centesimi al chilo. Il risparmio per le aziende può così arrivare fino al 400% dei costi rispetto ai prezzi del mercato legale. Lo stesso capo della Dipartimento antimafia Franco Roberti ha invitato a considerare lo smaltimento illegale un “reato d’impresa[16]”, piuttosto che far ricadere la responsabilità unicamente sulle consorterie mafiose. Sono stati infatti i proprietari d’industria ad aver facilitato l’ingresso della criminalità organizzata nel business dei rifiuti pericolosi. Inoltre, gli imprenditori non affiliati di aziende di gestione di rifiuti speciali sono stati fondamentali nel fornire siti di smaltimento e certificazioni fittizie alle reti di eco-criminali.
Il secondo elemento è la corruzione, insieme alla facilità con cui si aggirano i controlli. Modalità illegali di gestione dei rifiuti si sono verificate in ognuna delle tre fasi del ciclo: origine, transito e destinazione. Per far fluire il ciclo illegale, sono state e sono necessarie pratiche di corruzione a tutti i livelli: per analisi falsate, per autorizzazioni da rilasciare a impianti fuori norma, per far tacere pubblici ufficiali e organi di controllo. Alla fonte, i produttori di rifiuti possono dichiarare quantità inferiori di rifiuti conferiti o fornire informazioni false sulla composizione chimica degli stessi. Nel segmento di transito, le imprese di spedizione, i siti di stoccaggio temporanei e gli impianti di trattamento possono provvedere illegalmente al trasporto e allo stoccaggio, producendo documentazione falsa. Il metodo più comune è quello di declassare solo sulla carta i rifiuti da pericolosi a non pericolosi attraverso la tecnica del “giro bolla”. Ciò è possibile per mezzo di certificati d’analisi falsi forniti da laboratori cooperativi. La destinazione dei rifiuti pericolosi gestiti illegalmente può essere ovunque. Le operazioni illegali più comuni hanno incluso: lo scarico in siti autorizzati ma al di fuori delle norme di legge; l’abbandono in cantieri o sui campi agricoli; il conferimento agli inceneritori di rifiuti urbani; lo scarico non autorizzato a terra e in cave di sabbia.
Il terzo elemento: una legislazione insufficiente per decenni, che solo di recente è stata modificata grazie alla spinta di associazioni ambientaliste e di cittadini organizzati in comitati. Fino al 2001, chi trafficava in rifiuti pericolosi correva solo il rischio di una sanzione amministrativa, cioè una multa. Nel 2001, il commercio e lo smaltimento illegali di rifiuti sono diventati reato penale, attraverso la creazione nel sistema giuridico italiano del reato di “traffico organizzato di rifiuti” (art. 260 decreto legislativo 152/06). Nel 2015, con grande ritardo, il parlamento italiano ha approvato la prima legge organica sui crimini ambientali (68/15), in cui sono stati codificati cinque nuovi reati contro l’ambiente e la salute pubblica: l’inquinamento ambientale; il disastro ambientale; il traffico e lo smaltimento di materiale radioattivo; la negligenza ambientale e l’impedimento di controllo. La pena per questi crimini comporta da 2 a 15 anni di carcere e sanzioni pecuniarie. Tuttavia, alcuni gruppi ambientalisti e associazioni di magistrati hanno criticato tale intervento legislativo in quanto garantisce ai trasgressori la possibilità di sfuggire alla pena se provvedono alla bonifica (il cosiddetto “ravvedimento operoso”), e perché i termini di prescrizione sono ancora troppo brevi.
La Terra dei fuochi
Le campagne tra le province di Napoli e Caserta non sono state solo il terminale dei traffici di rifiuti industriali di reti ramificate nell’intero paese. Oltre ai sistemi integrati di imprenditori, clan e amministratori corrotti, un flusso di rifiuti speciali dall’interno del territorio campano, proveniente perlopiù da attività economiche non registrate, è stato smaltito illegalmente in miriadi di micro-discariche abusive tra strade poderali e campi coltivati, e spesso dato alle fiamme. La presenza ormai decennale di colonne di fumo tossico che si innalzano nei cieli dell’agro della ex Terra di lavoro, hanno valso a questa vasta zona tra le due maggiori città campane l’appellativo di Terra dei fuochi.
Nel 2013, l’economia non osservata (o sommersa) in Italia è stata pari a 206 miliardi di euro, quasi il 12% del Pil. La composizione di questa economia è costituita per il 47,9% da attività sotto-dichiarate degli operatori economici, per il 34,7% è derivante dal valore aggiunto prodotto dal lavoro irregolare e per l’8% da attività totalmente illegali. L’economia sommersa è diffusa in tutto il paese, ma le regioni meridionali hanno le percentuali più alte. In Campania, la quantità di rifiuti speciali e pericolosi prodotti dalle attività economiche non registrate è di almeno un milione di tonnellate all’anno. I rifiuti prodotti al di fuori della produzione dichiarata devono essere smaltiti necessariamente in modi illegali. Le piccole e medie imprese della regione che hanno una produzione a nero totale o parziale, utilizzano i punti non controllati delle campagne come una discarica a costo zero, utilizzando i roghi per coprire le tracce e per fare spazio ai carichi successivi. Secondo i dati dei vigili del fuoco, tra gennaio 2012 e agosto 2013, ci sono stati 6.034 incendi tossici in Campania. Alla fine del 2012, il ministero dell’interno ha incaricato il viceprefetto Cafagna del compito di coordinare gli enti locali e le forze dell’ordine campane per il contrasto ai roghi. Nel 2013, su iniziativa di Cafagna, è stato firmato il “patto della Terra dei fuochi”, ratificato dalla legge regionale n. 222 del 5 luglio 2013, in cui gli 88 comuni interessati dal fenomeno dei roghi di rifiuti si impegnano a coordinarsi con la filiera istituzionale di prevenzione, controllo e repressione, e con le associazioni di cittadini che vorranno proporre contromisure e soluzioni. Vengono messi a disposizione 5 milioni di euro dall’amministrazione regionale per aumentare le capacità di controllo del territorio ed enunciati i propositi volti alla risoluzione del problema, tra cui il censimento delle zone di scarico, la rimozione dei rifiuti, la bonifica dei terreni e lo smantellamento delle attività in nero che producono rifiuti pericolosi. La cabina di regia presieduta da Cafagna è stata il primo organo del governo sul territorio che ha ascoltato e applicato i rilievi dei cittadini, soprattutto del Coordinamento comitati fuochi e della Rete stop biocidio, coalizioni forti dell’esperienza di studio e di mobilitazione di un centinaio di comitati territoriali campani. A oggi, le misure di repressione dei roghi hanno contribuito a una riduzione del fenomeno, ma la strada è ancora lunga per una riconversione delle zone inquinate e per la restituzione al pubblico di una terra per troppo tempo abusata.
[1] Decreto legislativo 152/06, art. 184 c. 3.
[2] Ispra, Rapporto Rifiuti Speciali, 2015.
[3] Sende M., “Toxic Terrorism: A Crisis in Global Waste Trading”, in Anamesa Journal, 8 (1), NY university, 2010.
[4] Legambiente, Le rotte della Terra dei Fuochi, 2013.
[5] Regione Campania, Proposta di Piano Regionale di Bonifica dei Siti Inquinati della Regione Campania, 2012: http://www.regione.campania.it/assets/documents/piano-bonifica-44aucy7c.pdf.
[6] A cura del gruppo di lavoro “Terra dei Fuochi” designato dal presidente dell’Istituto superiore di sanità, Aggiornamento Studio Sentieri, 2014:
http://www.iss.it/binary/pres/cont/Terra_dei_Fuochi_AGGIORNAMENTO_SENTIERI.pdf.
[7] Iacuelli A., Le vie infinite dei rifiuti, altrenotizie.org, 2007.
[8] Sul caso Seveso, cfr. Biacchessi D., L’ambiente negato, Editori Riuniti, Roma, 1999.
[9] Comm. Bic., XIV legislatura, seduta del 30/10/2003.
[10] Sulle navi dei veleni vedi Venneri S., Terre blu, Le Balze, 2005; Legambiente, Mare monstrum, 2005; Legambiente e WWF, Le navi dei veleni, 2004; Palladino A., Bandiera nera. Le navi dei veleni, Manifestolibri, Roma, 2010.
[11] Palladino A., “A nord della terra dei fuochi”, in il manifesto del 19/11/2013. Questa circostanza è confermata dalle deposizioni dell’imprenditore pentito Gaetano Vassallo: la Toscana in particolare si trovò verso la fine degli anni Ottanta in carenza di impianti di conferimento rifiuti urbani e speciali, cfr. Vassallo G. con De Crescenzo D., Così vi ho avvelenato, Sperling & Kupfer, Milano, 2016.
[12] Tale “debolezza amministrativa” e facilità di penetrazione del crimine organizzato negli organi di governo comunali sono dimostrate dal fatto che in Campania, dal 1993 al 1997, circa 40 consigli comunali vennero sciolti ai sensi della legge antimafia.
[13] Nella richiesta di rinvio a giudizio del procedimento 171/93, “Contro Avolio Luca più venti”, i pubblici ministeri Narducci, Policastro e Melillo scrivevano nel 1993: “Tale consorteria mafiosa si proponeva di acquisire, in modo diretto, la gestione e il controllo totale di tutte le varie attività di raccolta, trasporto e smaltimento di ogni rifiuto prodotto da attività industriali o produttive, anche del genere tossico e nocivo, in zone diverse del territorio nazionale, e in particolare la gestione, in forma monopolistica, delle discariche ubicate nel casertano e nel napoletano”, in, Rifiuti S.p.A., Legambiente, 1994, p. 2.
[14] Per l’inquinamento della falda acquifera causato dal conferimento di rifiuti tossici alla discarica Resit, è stato condannato nel 2013 il boss Francesco Bidognetti, cfr. “Camorra. Venti anni di carcere al boss Bidognetti per disastro ambientale”, in Il Fatto Quotidiano del 14/11/2013. Per una ricostruzione puntuale dei fatti relativi alla Resit vedi Sodano T., Trocchia N., La Peste: la mia battaglia contro i rifiuti della politica italiana, Rizzoli, Milano, 2010.
[15] Reperibile all’indirizzo http://legambiente.campania.it/news/dossier-contenuti/le-rotte-dei-traffici-di-rifiuti/.
[16] Cfr. “Roberti: rifiuti e clan? È il passato. Oggi se ne occupano le imprese”, in Corriere del Mezzogiorno del 21/11/2013.