Quando l’emergenza diventa normalità.

La difficile prova della responsabilità delle amministrazioni per le discariche mal gestite.
21 ottobre 2020 - Eva Maschietto
Fonte: R.G.A. online

Consiglio di Stato IV, 20 ottobre 2020 n. 6349 (Pres. L. Maruotta – Relatore E. Loria)

Agricola Bortolotto srl, La Queta di Ciaramella Nicolina snc (Avv. O. Abbamonte, LM D’Angiolella) contro Regione Campania (Avv. A. Marzocchella), Comune di Castel Volturno (Avv. P. Vosa), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero Ambiente Tutela Territorio e Mare (Avvocatura Generale), Provincia di Caserta, Consorzio Unico Bacino Province Napoli e Caserta in Liquidazione (nc), Sogesid Spa (Avv. G. Brancadoro, C. Mirabile, A. Mannocchi) [conferma TAR Campania, I, 15.12.2017 n. 5913]

Il fatto che sia stata accertata la responsabilità civile del privato, gestore di una discarica, per la tracimazione del relativo percolato anche se perdurata per anni e oggettivamente causa di una compromissione ambientale, non comporta l’automatica responsabilità delle amministrazioni che si sono susseguite nella gestione del sito.

Sono ben distinti i presupposti dell’azione per responsabilità extracontrattuale secondo i canoni di cui all’art. 2043 cod. civ. e quelli dell’azione prevista dagli artt. 309 e seguenti del D.Lgs. 152/06: quest’ultima intende tutelare esclusivamente il valore “Ambiente” che costituisce oggetto di uno specifico interesse pubblico rispetto a casi di danno o anche di semplice minaccia di danno ambientale.

Il Consiglio di Stato ci offre una decisione in materia di distinzione tra danno da illecito aquiliano e danno ambientale che, pur confermando in toto la sentenza di primo grado del TAR Campania, lascia un poco di amaro in bocca al lettore più curioso, perché sembra in qualche modo (e un indizio si ricava dall’altrimenti incomprensibile compensazione delle spese di lite) applicare principi squisitamente formalistici a una situazione della quale non disconosce la sostanza.

Il fatto viene narrato molto sinteticamente in appello: si tratta dell’ennesimo caso di perdurante cattiva gestione di una discarica, la Ex Sogeri di Bortolotto, a Castel Volturno in provincia di Caserta che, dopo aver visto il fallimento del proprio gestore privato, è passata nella responsabilità del Commissario all’Emergenza Rifiuti della Regione Campania, nella persona del Prefetto di Napoli. Anni e anni (almeno dal 1995 al 2008) di una situazione ambientale compromessa nei quali succede poco o niente, ma alla fine risulta che il solo responsabile, il privato gestore, è fallito.

La ricorrente (o forse attrice in senso sostanziale, vista la natura della domanda), proprietaria di alcuni terreni limitrofi che ritiene illecitamente compromessi dalla presenza del percolato tracimato dalla discarica, inizia a perorare la propria causa dinanzi al giudice civile, lamentandosi della mala gestio della discarica e del danno subito dai propri fondi e dalle proprie coltivazioni; ottiene una vittoria piena davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ma perfettamente inutile, perché il gestore è oramai fallito.

La discarica quindi passa nella gestione del Commissario e si capisce che viene ancora utilizzata per fronteggiare l’emergenza rifiuti regionale, non viene mai messa in sicurezza ne’ bonificata e il percolato ancora tracima nei terreni della ricorrente.  E’ provato che quest’ultima ha inoltrato istanze e diffide nei confronti di tutte le amministrazioni potenzialmente coinvolte perche’ si attivassero per la bonifica.

La ricorrente si rivolge quindi al TAR per ottenere la condanna di tutte le amministrazioni, tempo per tempo coinvolte, a bonificare la propria area (con domanda di risarcimento in forma specifica) chiedendo, in subordine, una condanna per equivalente alla corresponsione di una cifra di poco superiore ai due milioni e mezzo di euro (costo stimato per la bonifica).

Il TAR Campania dispone una verificazione ex art. 66 CPA in relazione alla ricostruzione storica della vicenda, degli elementi di fatto e sul danno, verificazione che viene eseguita da ARPAC.  Si comprende – oltre al fatto che il Consiglio di Stato ne loda l’elevato contenuto tecnico – che l’esito della medesima, pur confermando nella sostanza lo stato di inquinamento e le sue cause, non riconosce il danno in capo alla società ricorrente perché il terreno, a quanto pare, non riscontrerebbe un superamento delle soglie di legge in relazione al percolato e, in sostanza, non vi sarebbe un particolare pregiudizio nelle coltivazioni.  Circostanza curiosa, posto l’accertamento del Tribunale civile, per il quale – peraltro – la stessa ARPAC aveva fatto da consulente tecnico d’ufficio, e il fatto che non si ponga in dubbio la necessità di una bonifica sulle acque di falda e in generale sul sito dei ricorrenti.

Una prima osservazione sorge spontanea: affidare una “verificazione” di questo genere all’autorità amministrativa tecnica locale, competente per il controllo dei procedimenti di bonifica, significa utilizzare probabilmente l’ente con maggiore esperienza tecnica nel settore, ma forse anche un soggetto potenzialmente coinvolto o coinvolgibile sia nella travagliata storia del sito, sia nel futuro del medesimo. Questo dato non appare irrilevante anche in considerazione del fatto che tutti i resistenti del caso sono amministrazioni pubbliche locali o nazionali.

Gli esiti della “verificazione”, che chi scrive purtroppo non ha potuto leggere, in questo caso forse ancor più rispetto a quanto ci insegna lo stesso Consiglio di Stato[i], avrebbero dovuto essere assunti esclusivamente per una ricognizione asettica dei meri fatti materiali, senza giungere a interpretazioni giuridiche di sorta.  Tali fatti, sembra a chi scrive, non negano lo stato di una grave, se non gravissima compromissione ambientale causata proprio dalla tracimazione del percolato, e non negano neppure la carenza di una tempestiva adozione di adeguate misure di sicurezza e di bonifica.

Ai fini dell’illecito aquiliano, tuttavia, sia il TAR sia il Consiglio di Stato concludono per la non sussistenza di una responsabilità delle amministrazioni convenute sulla base, anche qui, di una curiosa inversione rispetto ai classici canoni di accertamento della medesima.

Si parte infatti dall’affermazione dell’esclusione dell’elemento soggettivo che, quantomeno scolasticamente, è l’ultimo a rilevare, osservando il TAR che le amministrazioni resistenti si erano “comunque adoperate in diversi momenti per porre un argine”… all’inquinamento. Gia’ il “comunque adoperarsi” e il “porre un argine” sono termini significativi per delineare un approccio che, francamente, appare ribaltato rispetto a quel che accade quando ad “adoperarsi per arginare il danno” sia un privato.

Ma la conclusione e’ ancora piu’ sorprendente quando il TAR Campania lapidariamente afferma: “Si aggiunga che la particolare complessità fattuale della fattispecie esaminata porterebbe comunque questo Tribunale ad escludere l’elemento soggettivo della colpa”.

Quasi a dire che dove la situazione è troppo difficile, e certamente non puo’ non esserlo nei casi emergenziali, non possa ravvisarsi una colpa (!).

Sotto il profilo del danno, il TAR conclude per la sua inesistenza stante la non compromissione delle colture accertata dalla verificazione di ARPAC.

Il Consiglio di Stato – pur passando elegantemente in rassegna i diversi motivi di appello, che dopo aver criticato le conclusioni della verificazione in merito all’asserita assenza di danno rilevano che la presenza della contaminazione (sembrerebbe indiscussa anche secondo la verificazione di ARPAC) avrebbe comunque comportato una mancata fruibilità in assoluto del bene e una diminuzione del valore della proprietà in sé e per sé, in quanto tale risarcibile – non muta la propria decisione.

Il Giudice di appello, ancora una volta, dichiara “Premesso che non sono in contestazione l’esistenza di uno stato di compromissione ambientale…nell’area ove la Sogeri s.r.l., soggetto privato, gestiva la discarica, con tracimazione del percolato nel terreno, e la mancata adozione di adeguate misure di messa in sicurezza e di bonifica della discarica stessa” e contemporaneamente afferma di non accogliere le domande per mancanza di prova da parte del danneggiato e “in ordine alla insussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale in capo alle amministrazioni convenute, con particolare riferimento all’elemento soggettivo (dolo o colpa) e al danno”.

Ancora qui si parte dall’elemento soggettivo, rilevando il Consiglio di Stato una circostanza che sembra elementare e ovvia ma che, a ben vedere, è essa stessa un paradosso.

Il Consiglio di Stato, con affermazione impeccabile, afferma che “La sentenza emessa in sede civile non può quindi essere trasposta nelle sue conclusioni e nei suoi accertamenti nell’ambito del presente giudizio amministrativo”…”In altri termini, poiché in quella sede è stata ravvisata esclusivamente la responsabilità del soggetto privato, non può essere ravvisata una responsabilità – tanto meno ‘oggettiva’ o retrospettiva – delle amministrazioni che si sono susseguite, secondo le rispettive competenze, nella gestione del sito della discarica”.

L’ovvietà di tale affermazione è quasi banale, se non fosse che sembra tralasciare del tutto il fatto che l’esercizio di una discarica, anche da parte di un privato, è attività di interesse pubblico, disciplinata da norme specifiche quanto alla correttezza della gestione ambientale, la cui vigilanza spetta alle pubbliche amministrazioni.  Ora non è dato sapere se, in effetti, il potere dovere di controllo da parte delle amministrazioni competenti fosse stato correttamente esercitato, la sentenza tace a questo riguardo. Certo che il sillogismo granitico diventa forse meno logico dove si rifletta sulla natura dell’attività specifica di discarica, sul potere dovere di revoca della gestione di una discarica non correttamente gestita, sul dovere di controllo, di azionare le eventuali garanzie e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente da parte delle autorità preposte alla protezione degli interessi ambientali.

In ogni caso la sentenza non si occupa di questi dettagli e ci propone invece una prolusione sul danno ambientale ai sensi dell’art. 309 D.Lgs. 152 del 2006 e della sua differenza tra l’azione relativa – di competenza delle amministrazioni quali appunto vestali del bene “ambiente – e l’azione aquiliana propria del privato ai sensi dell’art. 2043 del cod. civ., volta ad ottenere il risarcimento di un danno ingiusto.

Quello che però la sentenza sembra ignorare è tuttavia il fatto che allo Stato, che è titolato a ottenere il risarcimento ambientale da parte del responsabile, si rimprovera di non aver agito tempestivamente nei confronti del responsabile, poi fallito, e di non aver esercitato i propri poteri doveri di occuparsi di un bene rientrato nella propria disponibilità che ha continuato a provocare un danno. In questo senso il danno ambientale diventa, da un lato, l’azione mancata che lo Stato non ha esercitato tempestivamente nei confronti del soggetto responsabile, ma dall’altra parte l’occasione per dimostrare che il bene, nella custodia della pubblica amministrazione, ha cagionato o continuato a cagionare un danno, quale la tracimazione del percolato, cagionando una compromissione dello stato del suolo del ricorrente.

La decisione, quindi, prende una strada – quella dell’azione per danno ambientale – e la percorre fino alla fine, ma senza dare una risposta convincente alla questione sostanziale.

Sull’elemento soggettivo, poi, il Consiglio di Stato, si trincera difendendo la tesi per cui la prova debba essere diretta e non presuntiva, paventando una “sorta di responsabilità oggettiva”, ad avviso del collegio, “non configurabile in astratto”. E, in concreto? A questo punto si sente scricchiolare la motivazione della decisione sia sul fatto che la prova dell’assenza di elemento soggettivo sembra essere demandata alla verificazione (circostanza che sarebbe inammissibile), ma soprattutto perché si intuisce che l’amministrazione ha messo in piedi diverse attività amministrative senza risvolti pratici per molto tempo, addivenendo ad un accordo di programma nel 2008, modificato nel 2009 che a sua volta avrebbe rinviato a successivi accordi operativi l’individuazione puntuale delle attività di bonifica e messa in sicurezza dell’area, insieme a molte altre aree.

Da questo insieme, ricostruito da una pubblica amministrazione quale ARPAC che – come quelle convenute – certamente ha una parte in tali procedimenti, il Consiglio di Stato ricava che “il complesso di tali attività, che come si è prima affermato non possono essere considerate conclusive, ma neanche meramente cartolari, fanno sì che non possa essere accertata la sussistenza dell’elemento soggettivo della responsabilità riconducibile allo schema dell’art. 2043 c.c.”. 

Ecco si sottolinea il termine “neanche meramente cartolari” per comprendere quale sia il criterio di sufficienza dell’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa a giudizio del Consiglio di Stato in una materia che tocca diritti fondamentali come quello ad un ambiente salubre, oltre al diritto di proprietà.

Sul pregiudizio, il Consiglio di Stato nega la contraddittorietà tra “la generale riconosciuta situazione di inquinamento ambientale dei luoghi e l’accertamento negativo dei danni alla proprietà delle appellanti” ancora sulla base della verificazione che assurge a elemento discriminante del giudizio.

In conclusione, ci pare questa una sentenza che lascia aperti e irrisolti molti punti in materia di responsabilità delle amministrazioni pubbliche in tutti quei casi di gestione emergenziale di siti complicati, come le discariche, in cui l’azione amministrativa, fornita in teoria di forti poteri di controllo, avocazione e autotutela, sembra invece trascinata dagli eventi, con conseguenze pregiudizievoli per l’ambiente ed i diritti dei proprietari dei siti confinanti.

Note: [i] Come insegna lo stesso Consiglio di Stato Sez. V nella sentenza n. 785 del 25.2.2016: “secondo la disciplina del Codice del processo amministrativo, infatti, la verificazione è uno strumento istruttorio che può essere utilizzato al fine di acquisire fatti non desumibili direttamente dai documenti acquisiti al fascicolo di causa ovvero per coadiuvare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze. In nessun caso la verificazione può essere adoperata quale strumento di valutazione diretta delle doglianze oggetto di ricorso“.
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