Fumi e balle nella città dei rifiuti

Sei milioni di ecoballe dell’emergenza campana in attesa di essere bruciati, gli scarti delle industrie del nord e i fanghi dell’Acna sepolti sotto terra, un campo rom su una discarica. E ora a Giugliano è in arrivo un inceneritore da 316 milioni
13 novembre 2013 - Angelo Mastrandrea
Fonte: Il Manifesto

ei milioni di eco­balle da una ton­nel­lata cia­scuna, acca­ta­state in pira­midi di spaz­za­tura che tre metri di muro in cemento armato e senza feri­toie non rie­scono a nascon­dere alla vista. All’interno, ronde di custodi-giardinieri curano le strade, sor­ve­gliano che nes­suno entri di sop­piatto e spruz­zano diser­bante con­tro le erbacce. Nel cuore di que­sta gigan­te­sca disca­rica nelle cam­pa­gne di Giu­gliano vive il con­ta­dino Sal­va­tore Picone. È lui l’unico cit­ta­dino della “città dei rifiuti” di Taverna del Re.

La mega­di­sca­rica gli è cre­sciuta tutta attorno, eco­balla dopo eco­balla, e man mano che l’emergenza rifiuti si acuiva essa con­ti­nuava a cre­scere e Picone a non smuo­versi di un mil­li­me­tro. Pian piano i ter­reni che col­ti­vava gli sono stati espro­priati, e lo stesso è avve­nuto ad quat­tro fami­glie. Ma Picone ha resi­stito fino a otte­nere che la sua casa, un’abitazione di tufo che oggi usa come depo­sito, e un mini-giardino che le sta attorno non gli fos­sero sot­tratti. Così oggi vive accer­chiato dal muro e dalle pira­midi di eco­balle, sulle quali è steso un velo nero che le rende viep­più inquie­tanti. L’area è con­ta­mi­nata, e non potrebbe essere altri­menti, però Picone ad andar­sene non ci pensa pro­prio. Non è per don­chi­sciot­ti­smo o chissà quale altro fine, bensì per attac­ca­mento alla sua terra: «La mia fami­glia vive qui da quat­tro gene­ra­zioni, se ne vadano loro», dice. Per offrirmi una pano­ra­mica della disca­rica mi porta sul tetto, pavi­men­tato, dell’abitazione. Da quassù si può guar­dare age­vol­mente al di là del muro e osser­vare le pira­midi di eco­balle, una die­tro l’altra in per­fetta sim­me­tria, a per­dita d’occhio ovun­que si volti il capo. «Erano i ter­reni che col­ti­vavo, non mi hanno ancora rim­bor­sato per l’esproprio», sostiene. Arram­pi­cato alla parete di una mas­se­ria vicina all’abitazione, un fico d’india sel­va­tico ricorda come sarebbe potuto essere que­sto posto. «Ho qui ancora dei trat­tori, però col­tivo in un’altra zona, in attesa che tol­gano que­ste eco­balle», dice ancora il “sin­daco” della “città dei rifiuti”.

Tec­ni­ca­mente Picone ha ragione. Quello di Taverna del Re, per quanto gigan­te­sco, è un sito prov­vi­so­rio. Come tutte le solu­zioni tem­po­ra­nee nel nostro Paese, si è però tra­sfor­mato in un’installazione per­ma­nente, un monu­mento alle sco­rie della civiltà del con­sumo. Ma, se pure dovesse essere abban­do­nato, un giorno, e le eco­balle ince­ne­rite come da pro­gramma, dif­fi­cil­mente il con­ta­dino che mi trovo di fronte potrebbe tor­nare a col­ti­vare le sue terre: troppo per­co­lato – un liquido maleo­do­rante pro­dotto dalla decom­po­si­zione dei rifiuti — è finito nei ter­reni e nelle falde acqui­fere per spe­rare che tutto torni come prima senza un’adeguata boni­fica.
La verità è che le eco­balle rischiano di rima­nere lì per sem­pre, a perenne memo­ria delle ferite che l’essere umano è in grado di inflig­gere alla natura. Gli ambien­ta­li­sti locali hanno cal­co­lato che, se pure si deci­desse di bru­ciarle nel vicino ince­ne­ri­tore di Acerra, uti­liz­zando quest’ultimo al pieno delle sue capa­cità — 1.267 ton­nel­late al giorno — si impie­ghe­reb­bero 4.736 giorni, quasi tre­dici anni, a smal­tire tutta la spaz­za­tura accu­mu­lata a Taverna del Re. Ecco per­ché a pochi chi­lo­me­tri di qui si vuole costruire un nuovo ince­ne­ri­tore, con­te­stato dai cit­ta­dini che non ne pos­sono più della mon­nezza impi­lata nelle disca­ri­che, sot­ter­rata nei campi e – si sospetta – sotto edi­fici e vec­chie fab­bri­che. Il nuovo impianto dovrebbe nascere al posto di una vec­chia cen­trale Enel, in fondo a una strada in cui il tea­trino di pro­sti­tute semi­sve­stite e aspi­ranti clienti ricorda un film di Pappi Cor­si­cato o Pedro Almo­dò­var. Alle sue spalle si sta­glia la sagoma del depu­ra­tore che in appena quat­tro mesi mesi dila­pidò tutto il capi­tale speso per costruirlo: diciotto miliardi delle vec­chie lire, una media di 150 milioni al giorno, gen­til­mente offerti dalla Cassa per il Mez­zo­giorno. A deter­mi­narne la chiu­sura furono le pro­te­ste dei cit­ta­dini, asfis­siati dalla puzza. Ora ci risiamo: per l’inceneritore è pre­vi­sta una spesa di 316 milioni per la pro­get­ta­zione e la costru­zione, più 25 milioni all’anno per 24 anni.

Gli affari della camorra

Un altro valido impe­di­mento a bru­ciare le balle di Taverna del Re è il loro con­te­nuto. Qui sono stati por­tati rifiuti urbani pro­ve­nienti dai sette impianti di Cdr – un acro­nimo che sta per «Com­bu­sti­bile deri­vato dai rifiuti» — che rac­co­glie­vano i rifiuti dell’intera regione e avreb­bero dovuto imbal­lare solo ciò che può finire nell’inceneritore senza appe­stare l’ambiente. Il con­di­zio­nale è d’obbligo, visto che, nel periodo “d’oro” dell’emergenza in cui la disca­rica cre­sceva di due ettari al giorno, non si faceva troppo caso a quel che vi veniva stoc­cato, al punto che una buona metà di essa, quella che esonda nel ter­ri­to­rio di Villa Literno, è tut­tora sotto seque­stro giu­di­zia­rio per­ché le eco­balle — una delle tante parole ingan­na­trici che la crea­ti­vità della nostra poli­tica si diverte a inven­tare per depi­stare l’opinione pub­blica — con­ten­gono ogni genere di rifiuti. Nel 2008 un pen­tito, Emi­lio Di Cate­rino, ha rac­con­tato ai magi­strati che il sito di Villa Literno era gestito diret­ta­mente dal boss Michele Zaga­ria, l’«ultimo dei casa­lesi», la pri­mula rossa del clan, l’uomo che al momento della cat­tura, nel 2011 dopo sedici anni di lati­tanza, dopo essersi com­pli­men­tato con gli agenti, chiese loro di poter fare una doc­cia prima di essere tra­sfe­rito in car­cere. Per rin­trac­ciarlo, i magi­strati si erano visti per­sino abbat­tere un drone, uno degli aerei senza pilota usati dagli ame­ri­cani nella cac­cia a tale­bani e ter­ro­ri­sti di Al Qaeda: «È scom­parso tra i fuo­chi di una festa patro­nale», rac­contò un mare­sciallo dei cara­bi­nieri a un incre­dulo Raf­faele Can­tone, il magi­strato napo­le­tano che, gio­cando come un gatto con il topo, dopo una lunga cac­cia riu­scirà a spun­tarla e rac­con­terà l’episodio nel libro-intervista di Fran­ce­sco Neri L’ultimo bun­ker (Gar­zanti edi­tore). La camorra era riu­scita a infil­trarsi in ogni fase del busi­ness: dalla for­ni­tura del cemento per la costru­zione della gigan­te­sca piaz­zola a quello dei tra­sporti delle eco­balle, fino agli impianti di pro­du­zione di Cdr, come nel 2007 ha rive­lato un altro col­la­bo­ra­tore di giu­sti­zia, Michele Fron­cillo.
«Qua den­tro c’è di tutto: coper­toni, lava­trici. Anche qual­che morto», dice Picone con un sor­riso che pare allu­dere a chissà quale altro mistero di cui non è dato cono­scere i par­ti­co­lari. Per arri­vare nell’énclave in cui vive l’unico cit­ta­dino di quest’isola di mon­nezza biso­gna imboc­care una stra­dina ster­rata che da un lato costeg­gia il muro della disca­rica e dall’altro dei ter­reni col­ti­vati. È neces­sa­rio arri­vare fino al punto in cui nel muro si apre una brec­cia, non più larga di un paio di metri, imboc­care una stra­dina ster­rata costruita a misura di auto e per­cor­rerla fino in fondo, per un chi­lo­me­tro e mezzo circa, senza lasciarsi vin­cere dal senso di oppres­sione che si prova ad andare avanti stretti tra due ali di cemento, come in un cuni­colo. Ho incon­trato Picone a metà strada. Stava per­cor­rendo la stra­dina in senso con­tra­rio con la sua auto­mo­bile e siamo rima­sti inca­strati senza pos­si­bi­lità di mano­vra, uno di fronte all’altro come i due auto­mo­bi­li­sti paler­mi­tani di Via Castel­lana Ban­diera. Per for­tuna, a dif­fe­renza del film-metafora di Emma Dante, il “padrone di casa” Picone ha accet­tato di far mar­cia indie­tro e di con­durmi in visita alla sua oasi.

I fan­ghi dell’Acna

Per dare l’idea delle dimen­sioni della mega disca­rica che rac­co­glie l’eredità dell’emergenza napo­le­tana dal 2001 al 2009 ci si è sbiz­zar­riti in simi­li­tu­dini: è grande come l’isola di Pro­cida o come 130 stadi di cal­cio. Ma nel disa­stro ambien­tale di Giu­gliano le eco­balle di Taverna del Re rap­pre­sen­tano quasi il minore dei mali. Nel vol­gere di poco più di un decen­nio, la terza città della Cam­pa­nia per popo­la­zione – 110 mila abi­tanti, vent’anni fa erano la metà – è diven­tata l’immondezzaio della Cam­pa­nia. Non solo: qui sono finiti, tra­spor­tati dai tir dei casa­lesi, i rifiuti delle indu­strie di mezzo nord, com­prese 31 mila ton­nel­late di fan­ghi tos­sici pro­ve­nienti dalla fami­ge­rata Acna di Cen­gio.
«Inda­gini giu­di­zia­rie hanno accer­tato che i rifiuti e il mate­riale pro­ve­nienti dall’attività di boni­fica del Sin di Cen­gio sono stati inter­rati in un’area ricom­presa nel ter­ri­to­rio di Giu­gliano, già ampia­mente e forse irri­me­dia­bil­mente com­pro­messo da un punto di vista ambien­tale», ha messo nero su bianco la Com­mis­sione par­la­men­tare d’inchiesta sulle eco­ma­fie. Vale a dire che la siste­ma­zione del disa­stro ambien­tale pro­vo­cato dallo sta­bi­li­mento chi­mico in pro­vin­cia di Savona è stata fatta sulla pelle di alcune cen­ti­naia di migliaia di cit­ta­dini del Mez­zo­giorno d’Italia e di un ter­ri­to­rio famoso, fino ad allora, per la bontà delle sue mele annur­che. Anche in que­sto caso i para­goni si sono spre­cati: l’inquinamento della Terra dei veleni è come la peste del Sei­cento, la Cher­no­byl cam­pana, e così via dicendo. Il pm napo­le­tano Ales­san­dro Milita aveva detto alla com­mis­sione par­la­men­tare: «Si tratta di uno di quei casi in cui una con­dotta per­ma­nente pre­vede un aggra­va­mento nel corso del tempo, per cui, facendo un paral­le­li­smo tra orga­ni­smo umano e ambiente, può essere sol­tanto para­go­nata all’infezione da Aids».
A dif­fe­renza delle eco­balle di Taverna del Re, i fan­ghi dell’Acna non si vedono, e nep­pure le altre 807 mila ton­nel­late di rifiuti indu­striali sot­ter­rati, secondo gli inqui­renti, in gran quan­tità in un’area che non è meno gigan­te­sca di quella su cui sono posate le balle pseudo-ecologiche dell’emergenza rifiuti. Siamo nel pieno della Terra dei veleni, parente stretta, e per­sino più inqui­nata, di quella dei fuo­chi. La pia­nura, da que­ste parti, è liscia come un campo da biliardo, per­ciò quelle col­li­nette che spun­tano come bru­foli sul volto pulito di un ado­le­scente risul­tano a prima vista sospette. Nella zona deno­mi­nata ex Resit ce ne sono diverse, tutte seque­strate dalla magi­stra­tura. Impiego una decina di minuti ad arram­pi­carmi su una di que­ste mon­ta­gne arti­fi­ciali. Tra l’erba spun­tano pezzi di pneu­ma­tici tri­tati e altri scarti. Su una col­lina di fronte la terra è sci­vo­lata via lasciando sco­perto un fianco e met­tendo in mostra quel che c’è sotto: un telo nero come quelli che rico­prono le eco­balle di Taverna del Re. Una volta arri­vati in cima si può godere una buona pano­ra­mica dell’intera area: è tutto un alter­narsi di campi col­ti­vati, serre e disca­ri­che rico­perte.
«Qui è tutto con­ta­mi­nato, ai con­ta­dini è vie­tato usare l’acqua dei pozzi», mi dice Lucia di Cicco, un’attivista dei comi­tati che si bat­tono con­tro l’inceneritore e per la boni­fica delle disca­ri­che. Ma è un divieto di Pul­ci­nella: in molti con­ti­nuano a uti­liz­zare i pozzi, sosten­gono gli atti­vi­sti locali. In realtà, l’acqua andrebbe presa da una cen­trale idrica costruita dal locale Con­sor­zio di boni­fica: si trova sul ciglio di un’arteria sopran­no­mi­nata «la strada della ver­go­gna», così detta per­ché è un sus­se­guirsi inin­ter­rotto di ogni genere di rifiuti, campi rin­sec­chiti e alberi «con il tumore». Per un cen­ti­naio di metri, un telone nasconde alla vista dei pas­santi una spia­nata di eter­nit. Lo chia­mano «il burka della mon­nezza». «È così dal 2008», mi dicono. Nes­suno ha mai pen­sato di rimuo­verlo.
La cen­trale con­sor­tile è poco più avanti, sullo stesso lato della strada. Qual­cuno ha divelto la porta d’accesso. A terra, incon­fon­di­bili pal­line di mer­cu­rio, in gran quan­tità, pro­ve­nienti da chissà dove. Se è da qui che dovrebbe arri­vare l’acqua non con­ta­mi­nata per le irri­ga­zioni, c’è poco da stare allegri.

Il campo rom e le fumarole

A Mas­se­ria del Pozzo mi por­tano a vedere una fuma­rola. Da que­ste parti, un po’ ovun­que la terra esala strani mia­smi, a ulte­riore testi­mo­nianza dei veleni che nasconde. «Quando piove qui fuma tutto», mi dice Lucia di Cicco. Il comune di Giu­gliano è com­mis­sa­riato per infil­tra­zioni camor­ri­sti­che: nel mirino sono finite pro­prio le man­cate boni­fi­che e la gestione dei rifiuti urbani, non­ché il busi­ness dei lidi marit­timi. Oggi però è bel tempo e la terra non fuma gran­ché. Alla fine tro­viamo una fuma­rola ai mar­gini di una strada ster­rata. A poca distanza gio­cano alcuni bam­bini rom del vicino campo nomadi.
Il campo è costruito su una disca­rica, come una favela filip­pina, e la cosa non appare costi­tuire un’emergenza uma­ni­ta­ria e nep­pure sani­ta­ria, a Giu­gliano. Me ne aveva par­lato, qual­che tempo fa, padre Alex Zano­telli. Il mis­sio­na­rio com­bo­niano tra­sfe­ri­tosi al rione Sanità di Napoli dalla barac­co­poli di Koro­go­cho aveva denun­ciato le con­di­zioni ter­ri­bili in cui vive­vano gli abi­tanti del campo e l’abbandono cui le isti­tu­zioni lo ave­vano con­se­gnato. Non mi pare che qual­cuno lo abbia ascol­tato.

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