«Altro che bonifica, per Giugliano ci vuole un sarcofago come Chernobyl»
NAPOLI — La scrivania è piena di carte, mappe contrassegnate da puntini rossi, linee arancioni, grafici e tracciati. Nella stanza ci sono anche cd zeppi di dati, vecchi armadi pieni di documenti, impiegati che entrano ed escono. L’omino coi baffetti grigi è nervoso, fuma una sigaretta dopo l’altra. Le finestre sono chiuse, così dopo un’ora e mezza di conversazione l’ufficio del commissario alle bonifiche in Campania necessiterebbe anch’esso di una immediata bonifica ambientale. Mario De Biase, 60 anni, salernitano, si accende l’ennesima sigaretta: «La Resit di Giugliano non mi fa dormire la notte. È il peggio che ci sia in Campania, lì sotto sono stati sversati tutti i veleni d’Italia, insomma sì, è un incubo». Un incubo, un mostro, una specie di cancro partorito negli anni dal patto mafia-industrie del Nord. Un tumore ambientale ramificato su 58mila 500 metri quadrati fino a 30 metri sotto terra. Arsenico, cadmio, cromo, zinco, un intero laboratorio di chimica venefica. Come si farà a impedire che continui a inquinare le falde e che nel 2061 — come recita la famigerata relazione Balestri — determini la catastrofe finale a Giugliano e nei paesi vicini? «O si spostano migliaia di tonnellate di veleni o ci vorrebbe un sarcofago come quello di Chernobyl, ma stavolta costruito a più di trenta metri sotto terra. Un’operazione teoricamente fattibile ma che costerebbe come due finanziarie». Altro che i 61 milioni stanziati dalla Regione per tutti i siti inquinanti: per bonificare l’«area vasta» di Giugliano servirebbe una specie di Piano Marshall. Commissario De Biase, dobbiamo quindi rassegnarci al peggio?
«No, ma è inutile parlare di bonifica. Noi stiamo lavorando, devo dire anche con il pieno sostegno del governatore Caldoro e dell’assessore regionale Giovanni Romano. Con i miei collaboratori ho trascorso gli ultimi due anni a completare il piano di caratterizzazione di quell’area e adesso almeno sappiamo con che cosa abbiamo a che fare».
Ci spieghi meglio, cos’è il piano di caratterizzazione e perché non si procede subito al disinquinamento?
«Perché la legge ci impone di verificare tutto. Vede i puntini colorati sulla mappa? Sono centinaia di carotaggi effettuati, scavi nei fondi agricoli, campionatura delle acque utilizzate per uso irriguo e che sono risultate inquinate. Attorno alla discarica abbiamo controllato un’area estesissima. Abbiamo pure vinto in Appello contro Fibe-Fisia che non voleva farci eseguire controlli nei due siti di ecoballe e ora li farà a proprie spese».
Intanto però non si può costruire il sarcofago sotto terra e la discarica continua ad avvelenare.
«Non come prima perché da sei mesi autonomamente abbiamo cominciato a estrarre il percolato e i gas per tenere sotto controllo la situazione. Una serie di operazioni tecniche affidate a Sogesid (la società a partecipazione pubblica del Ministero per l’Ambiente ndr) anche per evitare commistioni con le imprese del territorio, così allontaniamo problemi e polemiche».
Basta questo per scongiurare il pericolo di danni all’ambiente?
«No di certo, ma la messa in sicurezza urgente rappresenta un primo passo importante. Come ho detto non potendo procedere a una vera e propria bonifica del sito dobbiamo lavorare per alcuni interventi indifferibili. Come la ricopertura della discarica per evitare che la pioggia disciolga i prodotti inquinanti. Un lavoro che costa e molto. Pensi che solo per questo tipo d’intervento ci vogliono sei milioni di euro. Aggiungiamoci il sistema di spegnimento per evitare gli incendi periodici nello sversatoio dovuto ai gas. Purtroppo è successo un fatto strano: proprio oggi (ieri per chi legge, ndr) sono scaduti i termini di una gara fatta da Sogesid che aveva invitato 13 imprese nazionali specializzate nello spegnimento dei fuochi. Ebbene, nessuna di loro si è presentata. La gara è andata deserta».
Come se lo spiega?
«Non lo so, forse ci sono timori per il fatto che si tratti di un impianto sotto sequestro e per la storia che accompagna la Resit. So che adesso occorrerà bandire una nuova gara e quindi servirà altro tempo. Intanto l’Università Federico II ci ha messo a disposizione il progetto di bonifica Ecoremed. In pratica saranno piantumati fiori, alberi ad alto fusto e la gramigna che non viene attaccata dalle fiamme».
Insomma, la discarica-monstre dovrebbe diventare un giardino fiorito. Ma per ora si tratta di studi e progetti, quando inizieranno i lavori?
«Guardi il mio mandato scade il 31 dicembre di quest’anno, per quella data spero proprio di poter lasciare l’ufficio con le ruspe che entrano nell’area Resit e in quelle delle altre cinque adiacenti per iniziare i lavori di messa in sicurezza e di stabilizzazione. Finita la fase di studio, la legge ci obbliga a indire la gara europea per la scelta di imprese qualificate. Questo richiede del tempo».
C’è ancòra da aspettare, intanto il percolato avanza inesorabile.
«Non lo dica a me, io ci sto perdendo il sonno. La Resit è ormai il mio impegno più grande e totalizzante, dieci ore al giorno sei giorni la settimana. Appena ieri sono stato a Roma per un confronto con la Sogesid, l’altro giorno al ministero, poi dal prefetto. Ma teniamo anche conto della eccezionalità di questa situazione che, a mio avviso, si può paragonare a quella dell’Ilva di Taranto, anzi mi appare anche peggiore. Inoltre non dimentichiamo che attaccate alla Resit ci sono anche altre cinque discariche. Mi faccia concludere con una buona notizia: nonostante l’inquinamento dell’acqua per irrigare i campi, la frutta e gli ortaggi che si producono nella zona non risultano inquinati da agenti chimici. Ne ho la certezza per aver commissionato l’anno scorso uno studio all’Istituto superiore di Sanità, i risultati sono confortanti, almeno un barlume di luce si vede».