Spazzatura SpA
La vigilia di Natale del 2007 Napoli affogava nei rifiuti. Come il Natale precedente. E quello prima ancora. Ma Massimo Malvagna, il top manager di Impregilo responsabile del business (si fa per dire) Campania, aveva altri problemi per la testa. Non era affar suo se le discariche erano piene fino all'orlo e la monnezza non si sapeva letteralmente dove nasconderla. Lui doveva salvare il bilancio dell'azienda. Doveva evitare che il disastro campano aprisse uno squarcio da decine di milioni nei conti del più importante gruppo italiano di costruzioni. Così, quel maledetto 24 dicembre 2007, Malvagna chiamò il suo collega Filippo Rallo. Non era una telefonata di auguri. E Rallo se ne accorse subito. "Non creiamogli problemi assolutamente per nessun motivo", tagliò corto Malvagna. Che poi aggiunse: "A noi non ce ne fotte un cazzo. Ci denunciassero, non ti preoccupare. Ci denunciassero, te li ho dati io gli ordini". Quali ordini? Eccoli: "Quando ti dicono di fare entrare la roba gli devi dire venite, ma la metti per terra, la metti nel piazzale, la metti dove cazzo vuoi".
Fin qui le telefonate intercettate e finite agli atti dell'ultima inchiesta dei pm napoletani sullo scandalo rifiuti. La stessa inchiesta che martedì 27 maggio ha portato all'arresto, tra gli altri, anche di Malvagna e Rallo. Il quadro è chiaro, allora. Almeno agli occhi dei magistrati. Rallo, costi quel che costi, deve fare in modo che la 'roba', cioè la spazzatura, venga accatastata in qualche modo nei centri di stoccaggio e lavorazione gestiti da Impregilo, anche se questi sono pieni. Peggio, scoppiano. Tutto questo per non creare nuovi problemi all'allora commissario rifiuti Alessandro Pansa. Altrimenti sarebbero stati guai seri per Impregilo, perché rischiava di saltare l'accordo faticosamente raggiunto pochi giorni prima dall'azienda proprio con Pansa. "Il pericolo di una revoca", riassumono i magistrati,
"andava scongiurato, anche a costo di adottare comportamenti ricadenti nel rischio penale".
L'intesa, che passa sotto il nome burocratico di atto ricognitivo, stabilisce il diritto del gruppo Impregilo a vedersi rimborsati con denaro pubblico i costi sostenuti per realizzare il termovalorizzatore di Acerra (non ancora ultimato) e i tre impianti per la produzione di cdr (combustibile da rifiuti) di Caivano, Giuliano e Tufino. In totale fanno 389 milioni di euro. E questa è esattamente la cifra iscritta nei conti 2007 di Impregilo alla voce 'Progetti Rsu Campania'. Circa 321 milioni per l'inceneritore e altri 68 milioni per i tre centri di lavorazione del cdr, gli stessi che, secondo alcune perizie tecniche, non sarebbero in grado di funzionare correttamente.
L'azienda respinge in blocco la ricostruzione dei magistrati. "Nessun accordo", replicano fonti ufficiali di Impregilo. L'atto ricognitivo, secondo quanto spiegano i portavoce di Impregilo, sarebbe in realtà "un'imposizione del commissario di governo". Eppure, è proprio un documento ufficiale del gruppo a mettere in relazione gli accordi di dicembre con le valutazioni contabili degli impianti di smaltimento rifiuti. "Gli ammontari esposti", recita testualmente l'ultima relazione di bilancio Impregilo, "sono ritenuti recuperabili alla luce del contenuto dell'atto ricognitivo". In altre parole, senza l'accordo siglato con il commissario di governo sarebbe stato più difficile attribuire un valore certo alle attività campane. C'era il rischio concreto, quindi, che almeno una parte di quei 389 milioni si trasformassero in perdite. Quanto basta per dare un colpo, l'ennesimo, al bilancio della più importante azienda di costruzioni nazionale, un colosso da 2,6 miliardi di ricavi da tempo in sofferenza per il blocco dei cantieri delle grandi opere italiane. L'anno scorso, per dire, Impregilo si è aggrappata ai proventi di alcune redditizie attività sudamericane (gestione di autostrade in Brasile) per chiudere i conti con l'utile risicato di 40 milioni. E nel 2006, le perdite per 114 milioni legate alla catastrofica avventura in Campania erano state compensate solo grazie ad alcuni proventi straordinari. Troppo, davvero troppo per un'azienda quotata in Borsa e controllata, dopo l'uscita di scena (2006) della famiglia Romiti, da tre pezzi da novanta del capitalismo nazionale:la famiglia Benetton, Salvatore Ligresti e il costruttore piemontese Marcellino Gavio, un 'mistery man' più defilato, ma non per questo meno potente dei suoi due soci.
Lo scandalo dei rifiuti pesa sul bilancio, ma soprattutto rischia di mandare in frantumi l'immagine del gruppo. O meglio, quel che ne resta dopo anni di esposizione mediatica non esattamente favorevole. C'è un contesto, si lamentava l'amministratore delegato Alberto Rubegni durante la recente assemblea dei soci, "in cui ogni dichiarazione viene travisata rimanendo così un diffuso stato di disinformazione". L'estate scorsa, poi, era arrivato l'ennesimo affondo della procura, questa volta sotto forma di ordinanza di sequestro di beni Impregilo per 750 milioni. Il provvedimento è temporaneamente rientrato a fine marzo, quando una sentenza della Cassazione ha annullato l'ordinanza rimandandola al Tribunale del riesame che dovrà riformularla in termini, si prevede, molto meno pesanti. Finalmente una buona notizia. Una delle poche, in verità.
Perché sul futuro di Impregilo resta sospesa un'incognita pesante. Le perdite legate ai rifiuti, solo ipotetiche per il momento, finiscono per condizionare lo sviluppo del gruppo, costretto sulla difensiva in una lunga serie di complicate vertenze penali, civili e amministrative. Per questo, nel luglio dell'anno scorso, subito dopo lo choc del maxi sequestro da 750 milioni, Benetton, Gavio e Ligresti sembravano intenzionati a giocarsi il tutto per tutto per uscire dalla palude napoletana.Via l'amministratore delegato Alberto Lina, tanto per cominciare. Il manager, in sella da soli due anni, si è visto riconoscere, oltre a una buonuscita di 3 milioni di euro, anche un'ampia manleva su una serie di atti compiuti durante il suo mandato. E tra questi, come viene specificato nel verbale dell'ultima assemblea dei soci, ci sono anche le decisioni legate alla vicenda dei rifiuti.
Al posto di Lina è stato promosso Rubegni, già direttore generale. Mentre l'incarico di gestire in prima persona l'emergenza in Campania venne affidato a Bruno Ferrante. Per accettare l'offerta di Impregilo, l'ex prefetto ed ex candidato sindaco (centrosinistra) di Milano lasciò la poltrona di Alto commissario anticorruzione a cui era stato nominato solo sei mesi prima dal governo Prodi. Una scelta sfortunata, la sua. Ferrante non è indagato, ma compare più volte nelle intercettazioni disposte dalla magistratura mentre cerca di trovare il bandolo di una matassa sempre più intricata. La classica mission impossible. E così, ad oltre due anni di distanza dalla rottura del contratto originario tra Impregilo e il commissariato rifiuti, l'azienda di Benetton e soci deve continuare a gestire il servizio di smaltimento rifiuti per un periodo transitorio che sembra non finire mai. Peggio ancora: le inchieste della magistratura sollevano nuovi pesanti dubbi sul comportamento dei manager dell'azienda.
Forse, come pronosticano in molti, alla fine i processi verranno spazzati via dalla prescrizione. Questione di anni, comunque. Nel frattempo Impregilo resta prigioniera di una contraddizione che appare insolubile. Da una parte deve proteggere il suo investimento. Ma per farlo non può permettersi di abbandonare al proprio destino la Campania con tutti i suoi rifiuti, come invece vorrebbe. La luce in fondo al tunnel ancora non si vede. Se ne sono accorti gli investitori in Borsa. Neppure l'euforia per le promesse berlusconiane sulle grandi opere, a cominciare dal ponte sullo Stretto, è riuscita a risollevare una volta per tutte il titolo. Dopo mesi e mesi di ribassi il recupero era appena cominciato sull'onda del ribaltone politico. Poi, da Napoli, è arrivata la nuova bufera giudiziaria. E il rialzo si è sgonfiato. (09 giugno 2008)