Floresta pluviale e deserto nel cuore della metropoli
Non tutti i napoletani ne hanno consape- volezza, ma nel cuore della sovraffollata città partenopea c'è un pezzo di foresta pluviale messicana, poi un deserto sabbioso irto di cactus, macchie di felci «preistoriche», alberi pagoda e sequoie giganti, e finanche un piccolo «giardino biblico». Sono tutti ospitati dall'Orto botanico di Napoli, istituzione fondata nel 1807 dall'amministrazione napoleonica, che a sua volta riprese un ambizioso progetto borbonico. A oltre duecento anni dalla nascita, il grande giardino fioristi-co ospita oggi circa 25mila esemplari di piante, appartenenti a iomila specie provenienti dai cinque continenti, e ricrea al suo interno habitat vicini e remoti, dalle umide foreste tropicali alle aride pianure desertiche, dalla macchia mediterranea alle torbiere, fino ai lecceti autoctoni che occupavano l'area in passato. Da pochi mesi, l'istituto botanico ha avviato una nuova serra dedicata al Messico, con uno stagno costeggiato da mangrovie e piante tropicali ricoperte di epifite, i chiari filamenti che non hanno radici e si nutrono soltanto di aria e di luce. L'intero complesso scientifico, esteso per dieci ettari accanto all'Albergo dei poveri, puo essere visitato gratuitamente. E normalmente aperto dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 14, ma e consigliabile, prima della visita, chiamare lo 081/2533937: vista la delicatezza degli ecosistemi inclusi nel sito, lo staff dell'Orto esercita un certo controllo sugli accessi. Il giardino, infatti, ospita di tutto, dal cactus del peyote all'agave della tequila e al mate importato dagli indios, e in passato ha perciò attirato la curiosità di malintenzionati in cerca di «sensazioni forti». Malintenzionati che rischiano di infliggere danni pesantissimi a specie molto delicate, per poi restare delusi: non tutta la canapa, ad esempio, produce marijuana, e le piante di cannabis che i ricercatori, diversi anni fa, hanno dovuto rinunciare a coltivare, erano «banali» esemplari di canapa da tessuto. Sebbene prive di effetti stupefacenti, venivano, comunque, trafugate o mutilate. La direzione dell'Orto botanico, comunque, incoraggia le visite: quelle guidate, gratuite come quelle «libere», possono essere prenotate a partire da gennaio, fino a esaurimento posti. Il giardino, infatti, ha uno scopo didattico oltre che scientifico. In una delle sue sezioni, le specie sono raggruppate in base alla classificazione botanica, e così, in successione, si attraversano felceti di antichissima derivazione e gruppi di esotiche cicadee, fino ad arrivare agli alberi a noi più familiari, quelli che si riproducono con i fiori. I fiori, d'altronde, non mancano mai, perché qui convivono specie del nostro emisfero con specie dell'emisfero australe, abituate a germogliare quando da noi è autunno. Nella parte centrale, il giardino è organizzato in base ai diversi habitat, con piccole riproduzioni, ad esempio, di ambienti desertici e roccaglie mediterranee. Nella parte alta, la disposizione segue, invece, un criterio antropologico: viene mostrato, in altre parole, l'utilizzo delle piante, sia esso medico, alimentare, tessile, edile, e quanto altro. In questa cornice, si inquadrano il «giardino biblico», con svariate specie citate nelle Scritture, e il museo di paleobotanica ed etnobotanica ospitato accanto agli uffici amministrativi (anche il museo è a ingresso gratuito). L'istituto che gestisce l'Orto botanico è affiliato alla facoltà di Scienze naturali, fisiche e matematiche della Federico II ed è diretto, da oltre un quarto di secolo, dal professore Paolo De Luca. La struttura dà lavoro a circa cinquanta persone, tra giardinieri, impiegati, ricercatori e tecnici laureati, ed è uno dei centri di ricerca botanica più antichi d'Europa. Del suo storico fondatore, Michele Tenore, che lo diresse per oltre cinquanta anni, si ricorda la monumentale «Flora napolitana», volume in cui vengono censite oltre quattrocento specie sconosciute per l'epoca. L'intera opera, con le sue tavole, è da qualche anno consultabile sul sito web dell'Orto botanico, grazie al certosino lavoro di digitalizzazione realizzato dai ricercatori dell'istituto. Nel patrimonio architettonico del complesso, si segnala l'ottocentesca serra dalla facciata neoclassica, costruita sul modello delle «orangeries» del Nord Europa.