Rifiuti tossici usati come concime. "I contadini? Non facciano le vittime"

29 marzo 2008 - Marco Imarisio
Fonte: Corroere della Sera

Vincenzo Cannavacciuolo porta lo stesso nome e la stessa rabbia di suo padre. «Gli agricoltori che adesso piangono miseria, sono stati complici. Aprivano i cancelli dei loro campi ai furgoni pieni di rifiuti tossici, oppure li guardavano oltre la staccionata e stavano zitti».Essere figlio di un simbolo non dà da mangiare. Il capofamiglia è morto un anno fa, con il sangue pieno di diossina, 25 volte il livello normale, il suo allevamento di ovini è a metà strada tra la Montefibre che produce acrilici e l'inceneritore di Acerra. Vincenzo junior ha trentanni e nient'altro. A gennaio ha dovuto abbattere gli ultimi 400 capi di bestiame.
I recinti sono vuoti, come il conto in banca, perché i risarcimenti promessi dallo Stato non si sono ancora visti. «Non c'è mistero nella storia della diossina in Campania. Facevano tutto alla luce del sole. Anche per questo, nessuno deve permettersi di giocare a far la vittima».
Suo padre divenne famoso per aver lanciato pecore agonizzanti davanti al portone del municipio. Il veleno che uccideva le sue pecore, i suoi stessi terrificanti esame del sangue, la sua morte, sono diventati fonti di prova. Nelle campagne di Acerra, i rifiuti tossici che non riuscivano ad essere interrati, venivano usati come fertilizzante per il terreno. Il processo, in corso a Napoli, vede tra gli imputati alcuni sottoufficiali dei carabinieri, ritenuti collusi con i dirigenti della ditta che si occupava di trasportare dal Nord polveri di macinazione dell'alluminio, polveri di abbattimento dei fumi, liquame di risulta dei composti chimici, tutta roba che grazie ai documenti falsificati arrivava classificata come «residui riutilizzabili» nei centri di stoccaggio del centro Italia, e poi veniva buttata nelle discariche abusive e — soprattutto — nei campi coltivati. Al processo, il presidente del Tribunale non ha accettato la richiesta di costituirsi come parte civile di molti agricoltori della zona.
Tutto scritto, catalogato. La diossina forse non c'entra con le mozzarelle di bufala, ma è il filo con il quale viene cucita la sistematica devastazione del territorio campano. Nulla a che vedere con i rifiuti solidi urbani, la monnezza di Stato che nessuno vuole, ma molto da spartire con quei rifiuti illegali che per anni, ad alti e bassi livelli, hanno costituito una fonte di reddito per tutti.
Anche a questo servono, le inchieste giudiziarie. Nel ripercorrere quasi vent'anni di lotta al «nemico invisibile», definizione suggestiva coniata da un magistrato di Nola, emergono una serie incredibile di bestialità commesse contro la natura e gli abitanti. L'indagine «Adelphi» fu la prima. Era il 1991, e il giudice denunciava già allora il «ritardo drammatico» rispetto alla situazione. Negli atti si racconta della scomparsa di tre montagne, che a forza di essere scavate al loro interno per depositarvi rifiuti, finirono per collassare su stesse, come cumuli di sabbia.
Nel 1994 l'inchiesta Eco alza il coperchio sulle attività del clan dei Casalesi. La specialità è l'abbandono dei rifiuti tossici che arrivano dalle aziende lombarde specializzate nella lavorazione dei metalli pesanti. Ma anche all'estero mostrano di gradire l'offerta. In un campo di Santa Maria La Fossa vengono ritrovati 120 fusti aperti, ognuno dei quali misura due metri di altezza e sei quintali di peso. Sono pieni di materiale chimico, diossina allo stato puro. Le etichette sono scritte in tedesco. Erano state abbandonate da quasi un anno. Nessuno le aveva mai segnalate. Il terreno era impregnato dal liquido che filtrava a terra, frutto del connubio tra morchia di verniciatura e fanghi di depuratori. Nel luglio 2000 la procura di Santa Maria Capua a Vetere scopre un traffico di arsenico, cadmio, zinco. Ogni settimana venivano effettuati cento viaggi, organizzati da faccendieri del luogo e del Nord. Totale, centoventi milioni di tonnellate. I magistrati mettono in evidenza il ruolo di alcuni «agricoltori disposti ad "affittare" i loro terreni per accogliere codesti veleni». È la stessa tesi sostenuta dalla procura di Milano, che nel 2001 stima in ventimila tonnellate la quantità di rifiuti tossici provenienti dalle province di Brescia, Milano, Bergamo, e stipata nelle discariche abusive del casertano. Nel 2004 è la volta di Terra mia, inchiesta dal titolo evocativo (nel 2006 ci saranno Madre terra 1 e 2), nella quale vengono contate 35 piccole discariche abusive, ognuna delle quali confinante con terreni coltivati. La terra in questione è il triangolo Acerra-Nola-Marigliano, poi ribattezzato «dei veleni». Le persone arrestate non sono camorristi, ma imprenditori locali, che avevano deciso di buttarsi in un nuovo ramo d'affari, neppure consapevoli della sua illegalità. Nel convalidare gli arresti, il giudice della procura di Nola si appella ai cittadini comuni. «Guardatevi intorno, non girate la testa».

Powered by PhPeace 2.6.4