Inchiesta e accuse: «Complicità e omissioni delle istituzioni»

«Ma quali droga e estorsioni, la miniera d'oro sono i rifiuti»

Il boss pentito: così il clan gestiva lo smaltimento
26 febbraio 2008 - Gianluca Abate
Fonte: Corriere del Mezzogiorno

niziò tutto con un'estorsione. Correva l'anno 1988, e il clan dei Casalesi decise di imporre il pizzo agli imprenditori che volevano sversare illecitamente i rifiuti nelle loro terre. È durata un paio d'anni, questa storia. Fino a quando, cioè, la camorra non ha capito che gestire l'affare era cosa più conveniente che lucrare sull'affare.
E così i boss si sono fatti imprenditori, la cosca è diventata società, i prestanome sono stati nominati periti con il compito di andare in giro a cercar terreni. Riassumendola con le rivelazioni del superpentito Francesco Bidognetti, la svolta del clan è tutta in tredici parole: «Giudice, ma quali droga e estorsioni. La miniera d'oro sono i rifiuti». Quella «miniera d'oro» la racconta adesso un'inchiesta coordinata dal capo del pool antimafia Franco Roberti e affidata ai pm Cristina Ribera e Raffaello Falcone. Non è un'indagine dai grandi numeri (una sola ordinanza notificata in carcere al boss Giorgio Marano, sei richieste respinte dal giudice). Ma è, rileva la Procura, la prima che «riesce a provare per via giudiziaria » il «diretto» intervento dei Casalesi nel settore dello smaltimento dall'inizio alla fine (o, per dirla con un indagato intercettato, «dalla culla alla tomba»). Un'inchiesta cui plaude anche il governatore Antonio Bassolino. E che il procuratore Giovandomenico Lepore legge così: «L'intervento della camorra in questo settore non può costituire un alibi per le responsabilità di altri personaggi».

L'impresa e le coperture
La storia del ciclo dei rifiuti dei Casalesi è raccontata in 110 pagine, quante ne sono servite al gip Alessandro Buccino Grimaldi per motivare le sue decisioni. C'è tutto, in quei verbali. Nomi, date, società, terreni. E, soprattutto, le cifre. Un affare colossale. La «miniera » di cui parlava Francesco Bidognetti. Un filone d'oro che porta dritto a una società di Trentola Ducenta, provincia di Caserta. È la Rfg. Ed è «riconducibile a Elio e Francesco Roma». Sono padre e figlio, il primo è quello accusato d'aver «girato in tre mesi 6.000 tonnellate di rifiuti del Consorzio Milano Pulita». I due «gestivano» un impianto di compostaggio che avrebbe dovuto «lavorare i rifiuti e trasformarli in fertilizzante». Insomma, l'esempio di un corretto ciclo di smaltimento. Peccato però che, scrive la Procura, «in quegli impianti i rifiuti venivano trattati solo fittiziamente». Fertilizzante, dalla Rfg, non è mai uscito. E per la verità i rifiuti non ci sono neppure mai entrati. No, fanghi tossici e schifezze d'ogni altro genere sono finite nei campi. Moggi di terreno affittati direttamente su ordine del boss. E pagati lautamente ai loro proprietari. Com'era possibile che nessuno si accorgesse di tutto ciò? Be', a dar retta a pm e giudice le spiegazioni sono due. La prima, più morbida, è questa: «La società operava in regime semplificato». Il che vuol dire più o meno questo. Le imprese che esercitano un'attività di recupero di rifiuti non pericolosi, in base al decreto Ronchi, non necessitano di alcun'autorizzazione: basta un'autocertificazione, solo che con tutti i rifiuti che vanno in giro controllarle diventa impresa ardua per le pubbliche amministrazioni. La seconda ipotesi, però, è assai meno rassicurante della prima. E il gip la racconta così: «Va rimarcata la carenza di verifiche da parte delle autorità preposte al controllo, e in tale contesto non si può tacere che in alcune circostanze proprio appartenenti alle pubbliche amministrazioni sono i primi conniventi (...). Ci sono comportamenti compiacenti o gravemente omissivi anche nell'ambito delle istituzioni». Chissà in quale delle due ipotesi rientra la storia dell'Arpac di Caserta. Il 17 febbraio 2003, quando sequestrarono un terreno in località Santacroce a Frignano, arrivarono i tecnici a prelevare i materiali dal terreno. E cosa fecero? Analizzarono i fanghi concludendo che «i valori rientrano nei limiti previsti». Peccato non abbiano rilevato che la società non era mai stata autorizzata all'utilizzo di quei fanghi. Particolare non irrilevante: «Grazie a quella relazione il terreno venne dissequestrato».

Dal noccioleto alla discarica
Facciamo due calcoli. Smaltire in maniera lecita costava 300 lire del vecchio conio al chilogrammo in caso di rifiuti urbani, fino a 1200 lire se invece si trattava di fanghi di conceria. La premiata ditta Casalesi, invece, si faceva pagare tra le 120 e le 130 lire al chilo anche i fanghi. Un risparmio enorme per l'impresa che li doveva smaltire (e che tra l'altro non pagava neppure le 25 lire al chilo di ecotassa), un incasso altrettanto enorme per il clan. Ogni camion trasportava dalle 10 alle 15 tonnellate. I mezzi con i rimorchi, quelli che chiamano «bilancini», ne caricavano il doppio. Facevano «70, 80 viaggi per ogni moggio». E la sola Rfg ha scaricato così 8.000 tonnellate di fanghi e porcherie varie. Roba che alla camorra solo in questo caso ha portato in tasca qualcosa come 400.000 di euro. E che veniva «gestita» direttamente da Giorgio Marano, uno di quei nomi che senti poco ma contano molto, condannato in primo grado nel processo Spartacus (ergastolo) e pezzo da novanta della camorra dei Casalesi. I carabinieri del Noe e di Caserta l'hanno intercettato, pedinato, filmato. E, nelle informative firmate dal generale Umberto Pinotti e dal colonnello Carmelo Burgio, ci sono i nomi di tutti i sette indagati, a cominciare da quelli di Placido e Vincenzo Tonziello. Il primo era l'uomo cui toccava «l'intermediazione dei rifiuti», il secondo era l'addetto «al reperimento » di noccioleti e terreni vari sui quali smaltire i rifiuti. Insomma, era quello che «sottoscriveva e registrava i contratti d'affitto». E che versava «tra i due milioni e mezzo e i tre milioni di lire a ciascuno dei proprietari dei fondi agricoli». Lui, dalla Rfg, incassava invece tra i sette e gli otto milioni di lire per ogni moggio. Grazie anche a Domenico Bortone, il «braccio operativo », quello che «scavava e tombava i rifiuti». Domenico Bidognetti, il superpentito, il 9 ottobre 2007 l'affare rifiuti dei Casalesi lo riassume così: «Il controllo era totale, non scappava nulla, tutto il flusso era gestito dal clan. Cento lire al chilo. Trentamila chili ogni camion. Sette camion al giorno. Cinque giorni alla settimana».

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