Rifiuti. Bonifiche e decreto "Destinazione Italia"

Destinazione ignota. Di sicuro, lontano dall’Europa (note sul decreto "Destinazione Italia" in tema di bonifiche di Sin)
9 febbraio 2014 - Stefano PALMISANO

Nella logica classica si chiama “principio di non contraddizione”: non si può affermare, con riferimento allo stesso oggetto e contemporaneamente, una certa proposizione e un’altra di segno contrario alla prima, pretendendo che entrambe siano vere allo stesso tempo. E, soprattutto, pretendendo che chi ascolti ci creda.

In ambito giuridico, la trasposizione di quell’assunto si chiama “principio di unitarietà dell’ordinamento”: le varie branche di un sistema normativo devono esser tra loro armonizzate nei fini, devono, cioè, perseguire gli stessi complessivi obiettivi di politica del diritto, per quanto di rispettiva competenza dei vari ambiti del sistema stesso.

Nello scorso dicembre, il Governo ha emanato il decreto 145\2013, che lo stesso Esecutivo e i suoi tecnici, con intuizione redazionale impregnata di odeporica creatività (un po’ viaggio di Gulliver un po’ metafora jheringhiana), hanno battezzato, restando evidentemente seri, “piano Destinazione Italia”.

All’art. 4 (rubricato brillantemente “Misure volte a favorire la realizzazione delle bonifiche dei siti di interesse nazionale”, sic!), comma primo, che sostituisce una norma (l’art. 252 bis) del Testo Unico Ambiente (c.d. “TUA”, ossia il D. Lvo 152\2006), si legge che il Ministero dell’ambiente e quello dello sviluppo economico, d’intesa con le altre amministrazioni dello Stato competenti, “possono stipulare accordi di programma con uno o più proprietari di aree contaminate o altri soggetti interessati ad attuare progetti integrati di messa in sicurezza o bonifica, e di riconversione industriale e sviluppo economico produttivo in siti di interesse nazionale individuati entro il 30 aprile 2007 ai sensi della legge 9 dicembre 1998, n. 426, al fine di promuovere il riutilizzo di tali siti in condizioni di sicurezza sanitaria e ambientale, e di preservare le matrici ambientali non contaminate.”

A leggere quella disposizione, ma soprattutto i commi successivi alla stessa, però, qualche mente irredimibilmente preda di sindrome dietrologica potrebbe esser colta dal vago sospetto che gli obiettivi delle “condizioni di sicurezza sanitaria e ambientale, e di preservare le matrici ambientali non contaminate” non costituiscano precisamente quella che si definisce “ratio legis”, ossia il principio ispiratore del provvedimento legislativo.

O, quantomeno, che quegli obiettivi non si vogliano perseguire in un contesto di legalità, per non dire di serietà, nazionale e comunitaria, come si vedrà appresso.

Difatti, già dal testo su citato emerge che non si va tanto per il sottile ecologico pur di raggiungere il “fine di promuovere il riutilizzo di tali siti”, a partire dal primo elemento soggettivo riportato: “proprietari o altri soggetti”, a prescindere dal livello di responsabilità dei medesimi nella contaminazione dell’area in questione, per questo curioso legislatore - viaggiatore con “destinazione Italia” pari sono.

Ma decisamente di bocca buona quest’ultimo si rivela anche nell’approccio al campo della riparazione (o, per meglio dire, del contenimento) dei danni ambientali: infatti, senza stare a spaccare il capello terminologico, ma prim’ancora logico – giuridico, l’acuto estensore del provvedimento legislativo dichiara che i benefici accordi di programma in questione possono esser stipulati con variegati soggetti su citati, purché “interessati ad attuare progetti integrati di messa in sicurezza o bonifica”.

In verità, secondo il TUA, all’art. 240, ci sarebbe una certa differenza sostanziale tra “messe (al plurale) in sicurezza”. Già in questo genere, infatti, secondo la stessa norma, rientrano tre specie: quella “d’emergenza”, quella “operativa” e quella “permanente”; e la sensibile differenza tra le varie figure è funzione della diversa intensità dell’inquinamento che colpisce l’area in esame.

Ma ancor più pregnante è la diversità tra messe in sicurezza e bonifica, sotto il profilo degli interventi concreti da realizzare sempre con riferimento al grado di devastazione subito dal territorio in questione.

Dato che nel testo normativo in esame, sul punto, non v’è traccia di ulteriore specificazione, sembrerebbe di capire che sia il diretto interessato, ad libitum, a decidere se procedere, prima di avviare il progetto di “riconversione industriale e sviluppo economico produttivo” (anche in questo caso senza specificazione e limiti di sorta), ad una “messa in sicurezza” (una qualsiasi) o a una bonifica.

Ma, come si accennava sopra, sono anche e soprattutto altre le parti di questo mirabile articolato che danno da pensare in ordine alle finalità reali del legislatore della nota, patriottica, “destinazione”.

A partire dal comma 2 dello stesso articolo 1, dove si legge: “Gli accordi di programma di cui al comma 1 assicurano il coordinamento delle azioni per determinare i tempi, le modalità, il finanziamento e ogni altro connesso e funzionale adempimento per l'attuazione dei progetti e disciplinano in particolare: [….] e) i contributi pubblici e le altre misure di sostegno economico finanziario disponibili e attribuiti [….]”

Qui, davvero, c’è poco da aggiungere e\o esplicare: i temerari capitani d’impresa che prometteranno che da lande desolate e impestate estrarranno il petrolio della “riconversione industriale e sviluppo economico produttivo” beneficeranno di “contributi pubblici e altre misure di sostegno finanziario….”.

Quale che sia stato, nel passato anche recente, il rapporto di quelle quintessenze di imprenditori schumpeteriani con lo stupro di quei territori (vd sopra).

Infine, per chiudere questa modesta disamina di una previsione normativa tanto emblematica della cultura politica ed ecologica di questo legislatore, ossia di queste “classi dirigenti” (absit iniuria verbis), resta solo da rammentare il disposto di chiusura, una sorta di logico corollario, di questa gemma di tutela ambientale integrata: “6. L'attuazione da parte dei soggetti interessati degli impegni di messa in sicurezza, bonifica, monitoraggio, controllo e relativa gestione, e di riparazione, individuati dall'accordo di programma esclude per tali soggetti ogni altro obbligo di bonifica e riparazione ambientale e fa venir meno l'onere reale per tutti i fatti antecedenti all'accordo medesimo.”

Traduzione: quale che sia il livello reale di inquinamento dell’area (eventualmente scoperto anche dopo), quali che siano le vere responsabilità dei soggetti imprenditoriali nella causazione dello stesso e gli obblighi, comunque, normativamente gravanti sugli stessi di messa in sicurezza o bonifica, le tavole della legge degli “impegni” di costoro saranno costituite solo “dall’accordo di programma” che “esclude per tali soggetti ogni altro obbligo di bonifica e riparazione ambientale [….]

Quello stesso accordo che quegli stessi soggetti, che poi saranno proprietari e amministratori di colossi industriali, nazionali ed esteri, avranno stipulato con le, notoriamente autorevoli ed inflessibili, Pubbliche Amministrazioni di questo paese.

Com’è noto, quando un colosso industriale con le casse gonfie di profitti incontra una Pubblica Amministrazione italiana con l’accordo di programma in tasca, il colosso industriale è un colosso morto.

L’aspetto più gustoso di questa vicenda legislativa è che il magistrale decreto in questione è oggetto dei lavori parlamentari di conversione negli stessi giorni in cui l'Assemblea della Camera dei Deputati ha avviato l'esame di una riforma in materia di reati ambientali, che prevede tra l'altro l'introduzione nel codice penale di un nuovo titolo VI bis (Dei delitti contro l'ambiente).

In particolare, le due principali nuove figure di reato a tutela dell’ambiente che dovrebbero, negli auspici, entrare nel nostro codice sostanziale riguardano proprio il delitto di “inquinamento ambientale” (art. 452 bis c.p.), punito con la reclusione da uno a cinque anni e la multa da 10.000 a 100.000 euro, e quello di “disastro ambientale” (art. 452 ter), punito addirittura con la reclusione da quattro a venti anni.

In realtà, tenendo conto dell’attuale stato della tutela penale dell’ambiente nel nostro ordinamento, la riforma in questione costituirebbe, se approvata, un mero e non proprio tempestivo adempimento di precise e perentorie prescrizioni di provenienza comunitaria per le quali gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare reati a tutela dell’ambiente “puniti con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive.” (direttiva n. 2008\99)

A questo si aggiunga, con specifico riferimento al reato di disastro ambientale (ancora formalmente assente nel nostro sistema penale), che era stata la stessa Corte Costituzionale a provare a scuotere il, sempre presente a se stesso, legislatore italiano, affermando che “in relazione ai problemi interpretativi che possono porsi nel ricondurre alcune ipotesi al paradigma del c.d. disastro innominato (tra le quali, segnatamente, l'ipotesi del disastro ambientale), è auspicabile un intervento del legislatore penale che disciplini in modo autonomo tali fattispecie criminose.” (Corte Cost., Sent., 01/08/2008, n. 327)

Va, inoltre, evidenziato che l’applicazione dei nuovi reati di inquinamento e disastro ambientale comporterà non pochi problemi di accertamento giudiziale, con riferimento particolare al rapporto causale tra le varie condotte di inquinamento e l’evento del reato costituito dalla “compromissione” o dal “deterioramento rilevante della qualità del suolo, del sottosuolo, delle acque o dell’aria, ovvero dell’ecosistema, della biodiversità, della flora o della fauna selvatica”, (nel caso dell’illecito di “inquinamento ambientale”) ovvero “l’alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema”, irreversibile o di difficile reversibilità (per quanto concerne il “disastro ambientale”).

Puntualizzato tutto questo, però, quella in questione, in discussione alla Camera, resta una riforma di civiltà, giacché tende a fare della tutela penale di un bene vitale e comune come l’ambiente una materia giuridica appena seria.

Per questo, risulta quantomeno bizzarro che essa si trovi a convivere, nello stesso periodo storico e nelle stesse aule parlamentari, con norme di tutt’altro segno, come quelle che hanno “destinazione Italia” (sopra sinteticamente analizzate) e, soprattutto, “conseguenza sanatoria”, per il materiale effetto di condono che esse dispiegheranno, con grande probabilità, nei confronti di inquinatori seriali di territori sterminati (in tutti i sensi), almeno per quanto riguarda la responsabilità civile di costoro, quella cioè consistente nell’obbligo di risarcire i danni inferti a quelle terre.

Di talché, è tutt’altro che frutto di fantasia apocalittica uno scenario per cui ci si potrà trovare di fronte uno o più soggetti imprenditoriali sotto processo per disastro ambientale con riferimento ad un dato sito e, nel contempo, titolari di uno dei noti accordi di programma che, almeno per quanto riguarda gli eventuali profili di responsabilità civile gravanti sullo stesso soggetto in relazione a quel presunto disastro, potrà vantare eccellenti titoli di “responsabilità limitata” in forza del su citato comma 6, quello che “esclude per tali soggetti ogni altro obbligo di bonifica e riparazione ambientale [….]

Al netto del ginepraio di questioni che regolarmente sorgono in merito ai rapporti tra provvedimenti amministrativi e provvedimenti giudiziari anche in ambiti assai più semplici di questo, non occorre neanche in questo caso un’immaginazione particolarmente orwelliana per intuire che, anche in seguito ad un’eventuale sentenza di condanna per inquinamento o addirittura disastro ambientale di quei soggetti, non sarebbe opera proprio agevole quella di far pagare loro, almeno da un punto di vista civilistico, le loro colpe verso quei territori.

In questo senso, quindi, si lascia valutare chi legge quanto queste prospettive sarebbero compatibili con i due fondamentali principi, logico e giuridico, citati all’inizio di queste note: quello di non contraddizione e quello di unitarietà dell’ordinamento giuridico.

La chicca finale, che è doveroso evidenziare sempre, è che tutto questo riguarda non siti “qualsiasi”, ma territori particolarmente compromessi; tanto da esser stati qualificati “Siti d’interesse nazionale”(Sin, per l’appunto) con una legge dello Stato (l. 09/12/1998 n. 426), emanata principalmente “al fine di consentire il concorso pubblico nella realizzazione di interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati”.

Tra i Sin, dalla loro istituzione, nel 1998, ci sono Brindisi e Taranto.

Ma, v’è, infine, un altro fondamentale principio giuridico che non esce proprio corroborato dall’incontro (o, forse meglio, dallo scontro) con l’articolato (sopra esaminato) che viaggia verso la nota italica “destinazione”: è quello per il quale “La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela [….] Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga.” (art. 191 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – TFUE, ripreso integralmente anche nel nostro TUA all’art. 3 ter)

Con buona pace del nostro perspicuo legislatore in perenne movimento, non è dato cogliere come la statuizione dell’esclusione per chi stipuli un accordo di programma con lo Stato italiano - a prescindere in questa sede da qualsiasi ulteriore considerazione di merito e di metodo dello stesso - di “ogni altro obbligo di bonifica e riparazione ambientale [….] possa risultare men che spregiativo di quei principi, così limpidi e perentori, contenuti nel TFUE, di cui si è data contezza.

Non è chiaro cosa mai possa significare realmente scrivere nell’epigrafe di un decreto legge della Repubblica Italiana: “destinazione Italia”.

Una cosa è certa: quando mai fosse possibile, questo provvedimento serve a portare l’Italia ancora più lontano dall’Europa.

Fasano, 8\2\2014

Avv. Stefano Palmisano

www.legalepalmisano.it

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