Un’ intervista scomoda

8 febbraio 2008 - Serena Romano
Fonte: La verità delle contrade

L’azione intrapresa da De Gennaro difficilmente avrà sbocco. Non solo perché il commissario è dotato di una struttura tecnico-scientifica modesta rispetto all’entità del problema, ma perché la vicenda è ancora troppo ancorata politicamente e tecnicamente a 15 anni di malgoverno durante i quali molti sapevano ma hanno preferito tacere per approfittare dei guadagni offerti dall’emergenza. Questo è quanto emerge dall’intervista al giudice Raffaele Raimondi, insieme alla sensazione che De Gennaro sia solo: come un intrattenitore sul palcoscenico messo lì in attesa che arrivi qualcuno o qualcosa che tarda ad affacciarsi da dietro le quinte. Un “qualcosa” come una decisa assunzione di responsabilità da parte dei politici italiani che non si intravede. Troppo indaffarati a pensare al proprio destino di parlamentari più che a quello della gente che li ha eletti, la maggior parte di loro continua a sfilare ogni sera nelle vetrine televisive parlando di improbabili alleanze, salti della quaglia da un partito all’altro e campagna acquisti come se si trattasse di un campionato di calcio: allontanandosi così, giorno dopo giorno, dal comune sentire.
Ecco perché nel 2004 - alla luce di quanto accaduto fino ad allora e intuendo come sarebbe andata a finire – il giudice Raffaele Raimondi, presidente emerito aggiunto della Corte di Cassazione, si è rivolto all’Europa sollevando il coperchio della pentola in cui imputridiva l’immondizia napoletana: e la presenza degli ispettori mandati dall’Unione Europea conferma che la sua denuncia era fondata, come racconta egli stesso nell’intervista rilasciata al nostro blog e nello scottante documento di denuncia.

Pochi sanno che il coperchio della pentola in cui imputridiva l’immondizia napoletana è stato sollevato per la prima volta nel 2004 da un comitato di cittadini campani formato da magistrati e professori universitari: il “Comitato giuridico di difesa ecologica” presieduto dal giudice Raffaele Raimondi, presidente emerito aggiunto della Corte di Cassazione. Questi, avendo constatato che le denunce rivolte al governo italiano e alla sua longa manus nel commissariato venivano rimandate al mittente, ha cambiato indirizzo e si è rivolto alla commissione europea, intuendo che il problema rifiuti non sarebbe mai stato affrontato dai politici italiani, se non fossero stati in qualche modo obbligati. E ha avuto ragione, visto che nel processo avviato dalla magistratura di casa nostra – in cui il Comitato è stato ammesso come parte civile - emerge che la struttura commissariale è incriminata anche di falso: che significa?
“Che, secondo l’accusa, la Comunità europea è stata per anni fuorviata sul rispetto, da parte dell’Italia, della normativa sullo smaltimento dei rifiuti”, spiega Raimondi in questa intervista in cui ripercorre le tappe principali del documento di denuncia e individua quello che si doveva e non si doveva fare, per uscire dall’emergenza. Che vale tuttora.

Molti politici sono indispettiti dell’attenzione europea: non tanto per le sanzioni che dovremo pagare ma per la messa in mora che li discredita e rischia di rallentare “l’affare rifiuti” sul quale stanno lucrando in molti. Ma hanno ragione a risentirsi ?

“No. L’articolo V della Costituzione italiana evidenzia le distinte responsabilità dello Stato e degli altri enti territoriali di fronte alla normativa europea, che ogni Stato membro dell’Unione è obbligato ad applicare attraverso le norme di recepimento. Nella gestione dei rifiuti, il Governo italiano ha protratto dal 1994 il regime commissariale per l’emergenza oltre ogni limite di decenza costituzionale. Così il Governo da un lato ha spogliato le autonomie locali delle proprie competenze, ma dall’altro attraverso il proprio commissario straordinario delegato dallo stesso Governo - e quindi non più organo della Regione - ha operato in deroga a leggi e principi dell’Unione”.

E quale è stata secondo lei la peggiore conseguenza sul piano pratico?

“Quella che discostandosi da questi principi che sono frutto di studi a livello mondiale, il commissario delegato, anziché risolvere l’emergenza rifiuti per cui era stato nominato, ha precipitato la regione prima nell’ “emergenza dell’emergenza” e poi in un autentico disastro ambientale con danni enormi alle comunità locali: e tutto questo per avere adottato un’impostazione diametralmente opposta a quella voluta dalla legge”.

Può fare un esempio che tutti possano comprendere?

“Certo: l’impostazione è come la progettazione di un edificio. Se si adotta una progettazione in contrasto con le norme tecniche, l’edificio crolla. La struttura commissariale ha preteso costruire l’edificio della gestione dei rifiuti in Campania partendo dagli ultimi due piani: gli impianti di C.D.R. e i termovalorizzatori. Invece, lo schema logico-giuridico del diritto comunitario e le norme di attuazione del decreto Ronchi esigevano che prima si gettassero le fondamenta dell’edificio con la raccolta differenziata”.

Ma se il commissario fosse partito dalle fondamenta, cioè dalla differenziata, la situazione sarebbe stata diversa nel 2004 quando è partita la vostra denuncia?

“Sicuramente. Perché avrebbe avuto da smaltire solo un quinto dei rifiuti prodotti e la Campania non ne sarebbe rimasta assediata; perché intere comunità locali non sarebbero state spinte ad azioni disperate per salvaguardare la propria salute come il blocco ferroviario di Montecorvino Rovella che nell’estate 2004 per tre giorni divise in due l’Italia; né la Campania avrebbe ospitato aree di stoccaggio, divenute per la loro durata, discariche a cielo aperto; né, già nel 2004, avrebbe dovuto spedire i propri rifiuti nel resto d’Italia e in Germania con enormi costi. La struttura commissariale, insomma, ha capovolto lo schema della legge e ha voluto partire dall’ultimo piano, dal termovalorizzatore di Acerra, programmato per bruciare tutti i rifiuti prodotti tal quali – e quindi sovradimensionato e più costoso – per cui non c’era alcun interesse ad attivare la raccolta differenziata che, al contrario, avrebbe sottratto rifiuti alla capacità dell’impianto”.

Insomma, tutto quanto accade oggi è già accaduto quasi 4 anni fa: ma gli obblighi dell’Italia verso l’Europa non sono contestabili?

“No. Perché la differenziata non è un optional: e i tipi di impianti di smaltimento vanno individuati e progettati non a prescindere ma sulla base del poco che resta dopo la differenziata. Da qui non si scappa. Perché è la legge che predilige il recupero per ragioni economiche e ambientali, in quanto più rifiuti si recuperano, meno ce n’è da smaltire e da bruciare; e perché da un punto di vista logico e cronologico, se viene prima la differenziata e da ultimo l’impianto di smaltimento si può anche scoprire che per il pochissimo che resta non vale la pena – sempre sotto il profilo economico e ambientale – ricorrere a varie forme di incenerimento “a caldo” ma prediligere soluzioni “a freddo”: che è la nuova strada già intrapresa in molti paesi che da tempo hanno chiuso con gli inceneritori”.

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